Lo stile Barbie arriva alla Fashion week, con un talent Contest

AGI – Si allarga l’onda d’urto di Barbie, il fenomeno cinematografico degli ultimi anni, con le sue provocazioni e la fantasia di Barbieland, sconfina nella moda, anzi nella Settimana più attesa per gli addetti ai lavori.

Tra gli eventi della Fashion week di Milano, c’è il Barbie Style Talent Contest per celebrare la creatività e i valori. L’appuntamento, patrocinato dalla Camera Nazionale Giovani Fashion Designer e dalla Regione Lombardia, organizzato da “Le Salon de la Mode – Musikologiamo”, è per il 24 settembre, nello Spazio Diaz, dalle ore 18 alle ore 22. Il look della bionda mozzafiato, con il suo infinito guardaroba da sogno, dagli occhiali, agli orecchini, dagli abiti rosa shocking alle scarpe con il tacco affilato, ha conquistato la storia. 

In un momento in cui il film di “Barbie” ha incassato oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo e il suo iconico stile ha catturato l’immaginazione di giovani e appassionati di moda, il “Barbie Style Talent Contest” rappresenta “un’opportunità unica per scoprire nuovi talenti nel settore della moda e dell’hairstyling, ma va oltre la creazione di capi e acconciature ispirati a Barbie – spiega all’AGI, l’ideatrice del contest, la giornalista e manager di moda, Gabriella Chiarappa – . Offre la possibilità di trasmettere non solo lo stile distintivo di Barbie ma anche i valori fondamentali associati a questa iconica bambola, come l’individualità, l’autoespressione, l’uguaglianza, il rispetto, l’amore e l’empowerment delle donne”. In questo senso, sottolinea “il contest non si limita a premiare la creatività artistica, ma cerca di promuovere e celebrare questi valori positivi attraverso il mondo della moda e dell’hairstyling”. Vediamo in che cosa consiste la competizione.

“Gli otto fashion designer e hairstylists selezionati parteciperanno al Contest, dove dovranno creare rispettivamente un capo d’abbigliamento e un’acconciatura ispirati all’iconica bambola Mattel, Barbie – continua Chiarappa – . I fashion designer realizzeranno un capo di moda che richiama lo stile di Barbie, mentre gli hairstylists dovranno creare un’acconciatura che si ispira a questo stesso stile. I vincitori avranno l’opportunità di vedere i loro lavori premiati e, nel caso dei fashion designer, il capo potrà essere prodotto  da Silvian Heach, un noto brand di moda”.

A decretare i vincitori sarà una giuria, composta da esperti e figure istituzionali, tra cui: Francesca Caruso, Assessore alla cultura della Regione Lombardia, Alessandra Giulivo, Presidente della Camera Nazionale Giovani Fashion Designer,  Vanessa D’Amico, Design Director RTW Tod’s,  Mena Marano, Ceo del Gruppo Arav Fashion, Marco Giuliano e Nicolò Bologna, Designer MarcoBologna e Silvian Heach; Pablo Ardizzone, make-up Maestro. Per il settore hair, Isabella Corrado, Hair Stylist Senior Vogue Salon.


Lo stile Barbie arriva alla Fashion week, con un talent Contest

MADE, storie di artigiani che fanno grande la moda italiana

AGI – M.A.D.E – Made in Italy, Made Perfectly è la campagna di comunicazione che vuole omaggiare le maestranze e gli artigiani che fanno grande il sistema moda italiano. A lanciarla è stato il presidente di Otb, Renzo Rosso nella cornice del salone degli Arazzi al ministero delle Imprese e del Made in Italy a Via Veneto. L’iniziativa vedrà il suo momento conclusivo il prossimo 15 aprile, quando per la prima volta verrà celebrato nel mondo la Giornata del Made in Italy così come previsto nella proposta di legge in discussione in parlamento, ha ricordato il titolare del ministero, Adolfo Urso.

Il progetto racconta attraverso i volti, i materiali e l’ambiente di lavoro le storie di alcuni dei più importanti fornitori di Otb, holding italiana che controlla i marchi Diesel, Maison Margiela, Marni, Jil Sander, Viktor&Rolf. L’iniziativa coincide con i dieci anni di C.A.S.H. per il supporto concreto alla filiera della moda che permette di incassare anticipatamente, tramite un istituto bancario, i crediti vantati verso Otb a condizioni economiche estremamente agevolate. Un’iniziativa questa che ha permesso ai fornitori e agli artigiani di affrontare con maggiore serenità il momento pandemico.

La sfida dell’innovazione e della sostenibilità

Ad oggi hanno aderito a C.A.S.H. 65 imprese che hanno ceduto l’86% dei loro crediti, con più di 450 milioni di pagamenti erogati. Da qui nasce la campagna M.A.D.E. acronimo di manualità, artigianalità, dedizione ed eccellenza. Un vero e proprio tributo a chi ogni giorno, dietro le quinte, rappresenta il cuore dell’eccellenza italiana e delle grandi firme esportate in tutto il mondo. Dei video diffusi sui canali di Otb, racconteranno queste storie italiane dislocate su tutto il territorio nazionale fatto di volti, materiali, conciature nella sfida con la modernità. In un mondo contrassegnato dal fast anche nella moda, Otb decide di accendere un riflettore sulle maestranze della couture nostrana, fatta talvolta di piccole e piccolissime imprese e dei loro laboratori.

“Sono i piccoli produttori, le imprese artigiane i veri artisti che danno vita alla filiera italiana della moda. È proprio grazie a loro che il made in Italy è riconosciuto e amato nel mondo. Il gruppo Otb è intervenuto in questi anni offrendo alla propria filiera possibilità di crescita, formazione, innovazione, trasformazione digitale e tecnologica, e linee guida per il rispetto dei valori di sostenibilità e trasparenza” ha detto Renzo Rosso al Mimit, raccontando le linee guida di questo nuovo progetto che culminerà ad aprile 2024.

Per aiutare davvero la filiera del Made in Italy non si può pensare in termini di assistenza e il governo non può fare tutto da solo: le risorse vanno investite bene e per questo vanno affidate a imprese di grande e medie dimensioni che hanno gli strumenti per gestirle e la capacità di supportare le più piccole in termini di sviluppo e crescita – ha suggerito Rosso – il lusso è fatto di una manualità che va portata avanti e trasferita alle giovani generazioni, per questo stiamo insegnando ai ragazzi questi mestieri e il 90% trova lavoro dopo la nostra formazione”.

La storia di un prodotto il segreto del successo

Dietro M.A.D.E. c’è quindi un’idea di impresa che parte dall’anello più piccolo della catena di valore e lo vuole raccontare, portando alla luce soprattutto chi rimane lontano dalle passerelle della moda. Rosso ha poi ricordato la sfida della sostenibilità in cui tutti i grandi marchi sono coinvolti. Otb è impegnata da alcuni anni nel Fashion Pact che coinvolge 70 griffe impegnate a raggiungere l’impatto zero entro il 2030. “Abbiamo approfittato troppo del pianeta e abbiamo l’obbligo di consegnare un posto decente dove vivere alle prossime generazioni” ha ricordato il presidente di Otb che ha aggiunto “il consumatore moderno vuole conoscere la storia dei propri capi. Questo è possibile grazie a QR Code e alla block chain che permette di tracciare la storia di ogni singolo materiale dei capi indossati”.

M.A.D.E. è una campagna di comunicazione, ma anche un appello per una maggiore attenzione verso la moda che rappresenta la seconda industria del paese per esportazioni. Fatta di grandi marchi che senza i piccoli artigiani non esisterebbe. 


MADE, storie di artigiani che fanno grande la moda italiana

“Gambero Rosso” stronca il granchio blu

AGI – Che sapore ha il granchio blu? Quello di “un astice mancato” o che “non ce l’ha fatta” a diventarlo. A chiederselo e a rispondersi è il Gambero Rosso in una inedita stroncatura del crostaceo dell’estate 2023, che ha invaso mari, lagune, fiumi e financo i laghi, quello di Massaciuccoli stando alle cronache, divorandosi ogni genere di pesce.

I redattori della sofisticata rivista gourmet si sono infatti concessi o “regalati” una pausa dall’intenso lavoro estivo con uno spaghettone al crostaceo blu del momento in riva al mare. E osservano: “La pasta è servita bella al chiodo, saltata con pomodoro ciliegino, un ottimo olio piccante e dosi generose dell’invasore delle coste italiane, che ama le vongole e si diverte a ricamare le reti dei pescatori e degli allevamenti con le sue lunghe chele”, spiega l’articolo, “le venature sono tipicamente bluastre” ma “il sapore?”. Già, e il sapore?

Ed ecco il risultato dell’inedita degustazione gourmet: “Fondamentalmente, il granchio blu sa di poco”, il primo appunto, anche se “il ricordo è lontanamente legato alla dolcezza dell’astice”, tuttavia “l’intensità è nettamente inferiore, così come la sua consistenza, più sfilacciata e meno carnosa”. Punto. Seguono poi una serie di annotazioni: “La sapidità è sussurrata, l’eco marina è molto sottotraccia”. Insomma, “ci gustiamo, con un certo piacere, un ottimo spaghetto al pomodoro con un ‘ricordo’ di mare, dovuto probabilmente alla pochissima polpa bianca e delicata che offre il crostaceo”.  

Conclusione? “Ecco”, scrive il recensore, ”bisogna armarsi di pazienza e in tema abbinamenti” il granchio blu “lo vediamo più accanto a ricche insalate che sui primi”.

A chiudere l’articolo, ecco però il giudizio di un esperto, Maurizio Criscuolo, titolare del Jolly Lido e di Osteria Nuova ad Anzio, secondo il quale va fatta “una prima distinzione tra i granchi blu dell’Adriatico e quelli del Tirreno”, perché “i primi hanno una pezzatura piuttosto ridotta mentre quelli del Tirreno hanno un sapore assai più intenso e interessante”. I primi costano sui 5 euro, i secondi sui 13 al chilo, riferisce il ristoratore. Anche i mari e le acque hanno il loro perché.


“Gambero Rosso” stronca il granchio blu

La denuncia di Gambero Rosso: non c’è più il Gin&Tonic di una volta

AGI – “Ha qualche preferenza per il gin?” Non è affatto infrequente, quando si ordina un Gin Tonic, che il cameriere rivolga questa domanda. Ciascuno ha la sua etichetta preferita e ogni etichetta ha, di conseguenza, il suo gusto. Ma è ancora così? Oggi c’è una tale “esplosione di versioni e tendenze” che “ha di fatto svuotato la semplicità di un grande classico”, sentenzia il Gambero Rosso.

Ora come ora, il G&T è senza dubbio uno dei drink più in ascesa del momento, con un proliferare di Gintonerie o GinTonicherie che dir si voglia, locali che hanno un’ampissima selezione di Gin, che servono le “centinaia” di nuove etichette che nascono ogni anno con aromi e botaniche tra le più svariate e presentate “con garnish di tutti i tipi”.

Tant’è che se fino a trent’anni fa il Gin Tonic “era un drink da battaglia”, da consumare in discoteca “senza tante pretese”, a partire dagli anni ’90 “qualcosa è cambiato” in seguito alla nascita dei Contemporary Gin, termine con cui si indicano tutti quelli che “usano botaniche non tradizionali”, una tendenza che sempre di più è divenuta sinonimo di territorialità.

Al punto tale che solo in Italia ci sono circa 140 distillerie attive a fronte di una stima che parla di “almeno un migliaio di etichette” di gin sul mercato con diffusione almeno regionale. E non si contano, poi, le etichette di gin fatte una tantum per bar, associazioni, ristoranti. Una vera e propria effervescenza produttiva che fa sì che se il gin sta vivendo oggi il proprio “rinascimento”, ma il suo stesso successo ne sta decretando anche la fine.

Un paradosso, secondo il raffinato mensile enogastronomico: “C’è una superfetazione che non corrisponde più a metodi di produzione differenti, a scelte di impresa particolari, a filosofie di vita e di bevuta che raccontano chi produce”. Insomma, non si fanno più gin a misura di consumatore, bensì tagliati su imprenditori che vogliono un gin che “li rappresenti”: “Il produttore è uno solo, i marchi sono diversi” ma la maggior parte dei nuovi prodotti immessi sul mercato “è figlia di idee di marketing, prodotti realizzati da contoterzisti, spesso creati a centinaia di chilometri di distanza dal luogo la cui territorialità è vantata in etichetta”, precisa il giornale. Tant’è che “ci sono anche diversi gin distillati all’estero che però comunicano in modo esplicito la loro italianità” confondendo così il consumatore. “È possibile dichiarare di aver utilizzato limoni di Amalfi in etichetta anche soltanto aggiungendone uno per 1.000 litri di Gin e per il resto affidandosi a un qualsiasi prodotto a costi minimi”, accusa il Gambero Rosso.

Ecco perché la domanda iniziale del cameriere (“Ha qualche preferenza per il Gin?”) è anacronistica se non inutile. Come a dire: un gin oggi vale l’altro. Da cui anche la decretata “fine del G&T”.

Ed ecco anche il perché sono lontani i tempi dell’aforisma coniato da Winston Churchill secondo cui “il gin&tonic ha salvato più vite e menti di quanto non abbiano fatto i medici”. Ma potrebbe non esser più così.


La denuncia di Gambero Rosso: non c’è più il Gin&Tonic di una volta

Mai più pomodori in frigorifero. Ecco come conservarli

AGI – Il dibattito sulla corretta conservazione degli alimenti non passa mai di moda e quello su come conservare i pomodori ha avuto una sua appendice con un pronunciamento scientifico secondo il quale “i pomodori non vanno messi in frigorifero, pena la perdita del gusto”.

La “sentenza” è contenuta in un video della rivista Focus Italia dove si esprime la divulgatrice scientifica, chimica e cosmetologa Greta Bertarini, che sul suo profilo social da oltre 20mila follower offre pillole di chimica su prodotti di uso quotidiano: “La degradazione che provoca il freddo su certe molecole volatili è irreversibile. Viene recuperata solo in parte”, dice l’esperta.

Al centro di tutta la questione c’è il gusto del pomodoro, “dato dall’unione del sapore percepito dalle papille gustative e l’odore recepito dal naso”, scrive la rivista il Gambero Rosso nel dare la notizia, e si tratta di uno di quei “gusti inconfondibili, ricordi d’infanzia, di pranzi estivi leggeri e bruschette condivise in trattoria con gli amici”.

Insomma, “toglieteci tutto, ma non il pomodoro”. Ma proprio questo sapore caratteristico finisce per sparire un po’ proprio con il freddo. E questo perché il pomodoro “è un mix di zucchero e acidi, più tante componenti volatili: la produzione di quest’ultime viene rallentata dal freddo, che rovina anche i profumi, perché inibisce gli enzimi che trasformano gli acidi polinsaturi in molecole odorose”, spiega il Gambero, secondo cui “il modo corretto, secondo la chimica, è tenerli a temperatura ambiente, ma facendo attenzione a non posizionarli vicino a frutta che produce etilene (banane, albicocche, kiwi, pesche…) per evitare una precoce maturazione dei pomodori”.

Gli irriducibili della conservazione in frigo dicono però che per recuperare il pomodoro al suo sapore originario, “basta tirarlo fuori una quindicina di minuti prima”… Ma la scienza e la chimica non sono d’accordo.


Mai più pomodori in frigorifero. Ecco come conservarli

Chi dirigerà la cucina del nuovo ristorante di Massimo Bottura 

AGI – Secondo rumors insistenti sarà Jessica Rosval, canadese, classe 1985, la chef cui Massimo Bottura affiderà la guida della cucina del Gatto Verde il suo nuovo locale a Modena, la cui caratteristica sarà quella di essere “uno dei ristoranti più sostenibili del mondo, dal punto di vista tecnico e nella testa delle persone”, secondo quanto riportato dal Gambero Rosso.

Da Chez L’Épicier a Montréal e poi da Bearfoot Bistro di Chef Melissa Craig, Rosval è stata la prima cuoca a vincere la prestigiosa “Gold metal plates” in Canada. Entrata all’Osteria Francescana nel 2013, dopo aver trascorso una cena di compleanno con il suo fidanzato, da allora non ne è più uscita, “almeno idealmente”, chiosa il mensile.

A Modena ha preso il posto di Davide Di Fabio che, insieme a Takahiko Kondo ha sostituito il souschef Yoji Tokuyoshi, e a soli due mesi dal suo arrivo entra nella partita degli antipasti. Era il dicembre 2013. E da allora è sempre stata in squadra con il team di Massimo Bottura. Alla Francescana, prima, poi per un periodo alla cucina per gli eventi esterni e, dal 2019, alla guida della cucina di Casa Maria Ligia, la la guest house di campagna di Massimo Bottura&Lara Gilmore, aperta nel 2019 in un edificio del XVIII secolo, regno dell’ospitalità, con stanze e cucina, campo da tennis, piscina, sala da musica e orto. Avviata su diretto consiglio di Marchionne, l’ad Fiat prematuramente scomparso nel 2018, cinque anni fa.

Ora a distanza di dieci anni da quel festeggiamento di compleanno, cui è seguito l’ingresso nella cucina dell’Osteria Francescana dopo uno scambio di chiacchiere a fine cena, Jessica Rosval sembra pronta alla nuova avventura modenese, salvo imprevisti, dovrebbe partire entro il mese di settembre.


Chi dirigerà la cucina del nuovo ristorante di Massimo Bottura 

La classifica delle migliori acque minerali. Ritornano i test del gambero rosso

AGI – Quarantasei marche di acque minerale, testate dal Gambero Rosso, la rivista dei consumatori curiosi e golosi in un inedito ritorno alle origini, quando nella seconda metà degli anni 80 dava i punteggi agli alimenti dopo averli sottoposti ad analisi tecniche e scientifiche.

Un vero e proprio confronto tra quelle non addizionate di gas, le lisce e le effervescenti naturali, acquistate nella grande distribuzione e “degustate alla cieca da un panel di esperti assaggiatori, tra i quali due water taster”.

I valori presi in considerazione riguardano “leggerezza”, “pulizia”, “complessità”, “armonia” e “piacevolezza”, con un punteggio da uno a cento. Nessuna delle 46 etichette raggiunge il massimo, tant’è che la prima classificata – l’acqua San Bernardo – si ferma a 91 punti in quanto alle cinque gocce date per ciascun valore ne mancherebbe una proprio alla voce “complessità”. Ultima della classifica, la San Benedetto Ecogreen, che ottiene appena 50 punti mancando tre gocce per la “leggerezza”, quattro in “pulizia”, “complessità”, “armonia” e anche “piacevolezza”.

Nel mezzo tutte le altre, dalla Lauretana (90 punti), alla Frasassi (85), passando per Consilia (82), Fabia (80) a pari merito con Fonte Ilaria mentre Carrefour Classic Monviso s’attesta a 77 punti sopra Esselunga Ulmeta ma anche sopra a Sant’Anna (75). La Norda sta a 72 punti, Surgiva e Vitasnella a 70, San Benedetto con Viva a 67, Lurisia 64, Rocchetta 62, Vera 59, Evian 56 con Pejo, Boario 55 punti assieme a Dolomiti e Fiuggi, Levico è a quota 53, Levissima a 51.

Fuori dal computo, dalla classifica e quindi anche dall’analisi degustativa, le acque Panna e San Pellegrino, che sono “sponsor del Gambero Rosso”, avverte en passant in una riga la rivista gourmet, secondo la quale “assaggiare acqua per valutarla non è una passeggiata” perché “richiede uno sforzo superiore rispetto a quello di degustazioni di altri prodotti nella ricerca delle più piccole sensazioni al naso e al palato”. Ovvero, richiede “tempi lunghi, attenzione, pause” e “la situazione si complica” se si aggiunge che per alcuni degustatori “l’acqua non deve sapere di nulla, per altri invece dovrà esprimere una sua complessità e pienezza, fatte salve la pulizia e l’assenza di difetti”.

Ad ogni modo, un test di sicuro dissetante.  


La classifica delle migliori acque minerali. Ritornano i test del gambero rosso

Sì, viaggiare… ma da soli. Il trend dell’estate 2023

AGI – L’estate 2023? È la stagione dei “viaggiatori solitari”. Lo dicono gli algoritmi sulla base di ciò che gli stessi cercano online, scrive il sito della Bbc. Scoprire il mondo da soli anziché in compagnia di amici e in gruppo “è la cosa migliore”, sembra essere il mantra di quest’annata: “Il numero di persone che cercano ‘viaggi da soli’ su Google quest’anno è quasi raddoppiato rispetto a cinque anni fa”, scrive il sito della Tv inglese, nel mentre l’hastag #solotravel su TikTok “ha registrato un aumento di quasi dieci volte negli ultimi tre anni”. Infine, secondo un sondaggio del motore di ricerca di viaggi Kayak, le ricerche di voli per una sola persona nel 2023 sono aumentate del 36% rispetto al 2022, l’anno della fine della pandemia.

Insomma, l’incremento senza dubbio c’è. Per volontà o necessità, la maggior parte delle persone sceglierebbe di partire sola per prendersi una pausa da tutto e da tutti, per non dover scendere a “compromessi” con terzi proprio nel periodo di maggior relax o anche solo per fare un’esperienza diversa e darsi un’occasione in più per scoprire, incontrare e fare cose fuori dall’usuale e dalla quotidiana routine.

In genere viaggiare da soli alimenta più di un dubbio: “Con chi parlerai? Con chi mangerai? Starai poi davvero al sicuro e lontano da rischi e pericoli?”, si chiede il sito The Conversartion. Il vantaggio è che i viaggiatori solitari “possono mangiare dove vogliono, spendere quel tanto che desiderano e vedere ciò che più gli aggrada” senza dover rendere conto a nessuno, sottolinea ancora Vox.

I consigli per viaggiatori solitari naturalmente si sprecano, perché indipendentemente dal fatto di viaggiare da soli verso la città più vicina “per assistere a un concerto senza amici” o se si sta per saltare su un volo internazionale, “si deve esser preparati per ciò che vi può aspettare” a scanso di ogni equivoco: quindi meglio fare prima un po’ di ricerca su Google per vedere se la destinazione scelta contiene “segnalazioni particolari” e se per caso nel paese che si visita ci sono leggi che la potrebbero rendere scarsamente sicura”.

A tale proposito non mancano neppure i gruppi Facebook ad hoc di consigli e soluzioni per viaggi in solitaria. Tra i timori più diffusi tra i viaggiatori single: dove è meglio soggiornare? La paura di rimanere troppo soli e il desiderio di conoscere e parlare con altri, indipendentemente dalla lingua parlata. Cosa fare in caso ci si ammali o si abbia bisogno di aiuto? Per  la scrittrice ed esperta di viaggi Jessica Nabongo, la risposta è che “il mondo non è affatto così spaventoso come ci vogliono far credere”. I timori vanno superati: Come? Basta prendere e partire… perché, come diceva Jack Keouac, “l’importante è andare, dove non conta”.


Sì, viaggiare… ma da soli. Il trend dell’estate 2023

Cibo a domicilio, nei cesti dei rider colonie intere di batteri

AGI – Le consegne alimentari a domicilio sono un rischio per la salute di chi ordina il cibo attraverso le piattaforme? Secondo il Gambero Rosso sì, perché ci sarebbe “un clamoroso buco nella filiera del food delivery” che riguarda proprio la sicurezza alimentare per via dell’igiene che dei contenitori dove viene riposto per il trasporto da parte dei runner.

“Chi mangerebbe del cibo sapendo che è stato trasportato in un cubo che ospita più di 200 colonie di batteri?”, si chiede infatti Laura Panzironi, responsabile del Laboratorio SiLa, specializzato in analisi microbiologiche alimentari, che ha esaminato una delle sacche adibite al trasporto alimentare di Glovo, una delle principali aziende che si occupano di food delivery: “Sul fondo e sulle pareti laterali del box sono state trovate più di 200 colonie di batteri”, scrive il mensile gourmet nel riportare i risultati dell’analisi di laboratorio, una quantità che sarebbe il “triplo” di quelle che si possono trovare “sul pavimento di un ristorante”, tant’è che nel caso di un controllo sanitario il locale verrebbe di sicuro “sanzionato perché troppo sporco”, osserva la testata.

Secondo la rivista dei consumatori curiosi e golosi, il controllo del rispetto delle disposizioni “in materia di sicurezza alimentare” è affidato alle Asl (ai Servizi veterinari e di igiene degli alimenti), ai Nas (il nucleo anti-sofisticazione del comando dei Carabinieri) e all’Icqrf (l’Ispettorato centrale repressione frodi), “almeno sulla carta, perché la realtà è ben diversa”, ossia “nessuno si occupa sistematicamente del controllo igienico sanitario degli alimenti nella fase del loro trasporto”, che è invece “una grande questione” perché attiene allo stato di conservazione degli alimenti.

Stando poi alle procedure Haccp, Hazard-Analysis and Critical Control Points, ideate negli anni Sessanta dalla Nasa per assicurare la sicurezza microbiologica degli alimenti forniti agli astronauti, quelli “deperibili, cotti, da consumarsi caldi, devono essere trasportati da 60°C a 65°C”, mentre gli alimenti deperibili “da consumarsi freddi devono stare a una temperatura non superiore ai 10°C”.

E per rispettare la catena del freddo, gli alimenti dovrebbero essere trasportati “su veicoli muniti di contenitori con attestazione Atp” (Accord Transport Perissable) in commercio, anche se per le loro dimensioni possono essere trasportati da moto o autocarri, “ma non da scooter o biciclette”.

Ma questo è un altro argomento, rispetto alla sporcizia e al numero dei batteri trovati nelle sacche di trasporto.


Cibo a domicilio, nei cesti dei rider colonie intere di batteri

Combattere il caldo quando l’aria condizionata non c’è

AGI – Le città ribollono di calore. Il mercurio nei termometri continua a salire, eppure ci sono degli accorgimenti semplici ma ferrei per combattere le temperature in continua crescita dentro casa, regole ispirate a due principi essenziali: ventilare durante le ore più fresche e chiudere ermeticamente gli infissi quando il sole è alto in cielo. E senza dover ricorrere necessariamente all’aria condizionata.

Le ventole attaccate al soffitto, come nei film più sofisticati d’un tempo, ad esempio, da un po’ sono tornate a essere di gran moda, racconta il Paìs, Se ne trovano di diverse tipologie e anche di svariati prezzi, per lo più accessibili. “Il modello con luce e telecomando per un motore a più velocità è il più consigliato”, una soluzione utile soprattutto per le camere da letto (dove è consigliato, in abbinamento, usare anche lenzuola bianche, di lino, che richiamano la freschezza e inducono al riposo) e per i salotti. Ma per l’impiego di queste pale o ventole, bisogna fare bene i conti con i metri quadrati della stanza, la sua ampiezza.

Anche le tende hanno una loro importanza per arginare il calore. “Poniente, Bora o Mistral” sono alcuni dei nomi dati a modelli di tende di nuova collezione, che riuniscono un’ampia varietà di tessuti ispirati ai venti mediterranei. “I tessuti sono presentati in colori naturali e in doppia altezza, pensati per regolare l’ingresso della luce e modulare l’aria che entra dalle finestre. La sensazione di freschezza è assicurata con tessuti così sottili”, si legge.

E pure il colore dei mobili non è indifferente: le credenze dell’azienda valenciana Slowdeco, proveniente da foreste sostenibili certificate e ispirate allo stile nordico “forniscono una sensazione di aria e di luce”. Anche fare ordine in casa, è dimostrato, contribuisce a portare freschezza, specie se le strutture dei mobili sono di metallo e i rivestimenti interni in tessuto. Da non dimenticare poi l’utilizzo delle piante, dai bagni ai salotti, che portano refrigerio, come ad esempio la monstera, il filodendro o la pachira acquatica.  

Dalle stanze, infine, via i tappeti invernali e al loro posto da usare sono le stuoie in fibre naturali che rinfrescano e combattono il caldo. Tutti i colori usati, poi, devono esser tenui, anche per le tovaglie della tavola. Le luci, inoltre, si raccomandano fioche e fredde, infine le finestre debbono essere il più possibile ermetiche (ma questo vale anche per il freddo d’inverno).

Dovrebbe bastare per non ricorrere al condizionatore.


Combattere il caldo quando l’aria condizionata non c’è

 Storia e varianti del caffè con ghiaccio, la bevanda dell’estate salentina

AGI – Il caffè con ghiaccio? La sua versione più popolare in Italia è nata a Lecce e poi si è diffusa nel resto della Penisola. In breve, consiste in un bicchiere di vetro colmo di cubetti, espresso e latte di mandorla mischiati insieme. La ricetta di rigore vuole: 1 espresso corto 20/22 ml, 1 shot di latte di mandorla, ghiaccio quanto basta fino a colmare l’intero bicchiere.

Poi c’è la variante “con crema”, che presuppone due espressi uniti in un mixer insieme a due cubetti di ghiaccio. Una volta shakerati, “tenere da parte la crema e preparare un altro espresso”. Poi, in un bicchiere di vetro “versare la crema, lo shot di espresso, il latte di mandorla e ghiaccio fino a riempimento”.

Sono i consigli del Gambero Rosso che in un servizio a carattere storico precisa che “la combinazione di acqua e ghiaccio non è nata in Puglia. Anzi, le prime apparizioni di questo mix risalgono a secoli fa in paesi molto lontani dal Mediterraneo”. Tuttavia, questa bevanda, forse tra le più consumate d’estate, ancor oggi resta “fortemente ancorata alla terra d’origine”.

Ad ogni modo la tradizione del caffè con ghiaccio si basa su “pochi scritti e pressoché nessuna testimonianza”, sottolinea il mensile gourmet. E una delle tesi più accreditate vuole che “siano stati i francesi i primi a servire del caffè freddo”, il Mazagran, chiamato così dal nome della legione dei soldati francesi in Algeria. In ogni caso, racconta il Gambero, “già dalla seconda metà dell’Ottocento in Vietnam, uno dei maggiori paesi produttori di caffè, si utilizzava questa combinazione, con una ricetta chiamata Cà phê đá”. La base è un caffè tostato scuro e macinato grossolanamente, estratto con la french press. Anche in questo caso, come per il caffè leccese, “ricorre un elemento dolce, il latte condensato, con aggiunta di ghiaccio”.

Dal Vietnam questa bevanda, così come il caffè stesso, “si è iniziata a diffondere molto di più a partire dai primi anni del Novecento. Fino ad arrivare nel Sud America, più precisamente in Cile”. Qui, c’è la tradizione del Cafè Helado, bevanda tutt’oggi molto popolare durante l’estate.

Irresistibile per i palati più golosi, “il caffè con ghiaccio in stile cileno si compone di espresso, polvere di caffè, crema cantilly, cannella, semi della bacca di vaniglia, dulce de leche e mandorle tritate o nocciole”. Al drink ipercalorico può essere aggiunto, a piacere, anche del gelato alla vaniglia. “Naturalmente, oggi non tutti questi elementi vengono utilizzati insieme, e la maggior parte dei clienti può scegliere a proprio gusto il mix preferito”, precisa la rivista dei consumatori curiosi e golosi.

Ma non finisce qui: in Australia, invece, esiste una versione più contemporanea del caffè con ghiaccio: si tratta di una sorta di milkshake non mescolato, servito con gelato e panna montata. La bevanda comprende spesso anche sciroppo, panna, cacao in polvere e chicchi di caffè. “Quella australiana è una versione molto più commerciale”, spesso venduta preconfezionata nei supermercati e addirittura disponibile anche nei distributori automatici. Altre varianti simili sono ampiamente diffuse in Germania, Stati Uniti, Canada. E così via nel resto del mondo.

In definitiva, sono tanti i popoli che durante la stagione calda “amano deliziarsi con un buon caffè in versione estiva”: gelato, crema, panna fino ad arrivare alla casalinga granita di caffè.

La lista delle proposte non ha limiti, ma una leggenda narra che il Salento abbia importato dalla penisola iberica questa usanza, precisamente da Valencia, dove sulla costa orientale vive ancora la tradizione del Café del Tiempo, a base di ghiaccio e agrumi. A Lecce, il re del caffè con ghiaccio è Edoardo Quarta, nota famiglia di torrefattori salentini, ideatore di una “linea di caffè di ricerca”.


 Storia e varianti del caffè con ghiaccio, la bevanda dell’estate salentina

L’esperto: “Il gelato artigianale narrazione utile per vendere”

AGI – Estate, tempo di gelato. Un amore culinario che non conosce crisi, visto che il consumo di coni e coppette in Italia resiste anche all’inflazione. Ma, sensazione di refrigerio a parte, che cosa rende così apprezzato l’alimento più iconico dei mesi caldi? “Il gelato non è semplicemente un alimento tra i tanti, ma è l’oggetto di un piacere che si concede alla sensorialità, distante da valutazioni di carattere nutrizionale e salutistico”. A dirlo all’AGI è Ernesto Di Renzo, antropologo dei patrimoni culturali e gastronomici e docente presso l’Università di Roma Tor Vergata.

Secondo l’esperto, “il gelato è una ‘indispensabile superfluità’ che gli uomini si concedono da oltre due millenni per assecondare una caratteristica di specie che li contraddistingue da qualunque altro essere vivente: la ricerca edonistica del piacere. E oltre all’esperienza del piacere, e alla gratificazione sensoriale, non vi sono altre ragioni significative che giustificano il suo consumo”. Per Di Renzo, che nel suo libro ‘Mangiare l’autentico’ sottolinea l’influenza del marketing sulle scelte alimentari degli italiani, anche l’attuale proliferazione di gelaterie artigianali e gusti di qualsiasi tipologia rientrano in una imposizione dell’industria culturale.

“La cultura, nel suo attuale dispiegarsi all’insegna della post-modernità, ci rende particolarmente sensibili verso i temi della sostenibilità, dell’autenticità e naturalmente dell’artigianalità. Quest’ultima ci viene presentata come l’alternativa a tutto ciò che è industriale, scaffalato e replicato all’infinito, secondo criteri di standardizzazione e di omologazione produttiva. Dire che un prodotto è artigianale significa attivare nella mente una narrazione che ci porta a immaginarlo come parte di un mondo idealizzato dove tutto è fatto secondo antichi saperi e criteri ispirati alla qualità, non alla quantità e alla standardizzazione”.

Per l’esperto, quindi, è per questo che “il mondo della produzione dolciaria, alimentare e gelatiera tende ad appropriarsi della nozione di artigianalità, anche quando questa non c’è, né ci potrebbe assolutamente essere, visto la mole di prodotto commercializzato. E il marketing, che molto spesso si appropria dei concetti dell’antropologia a peso d’oro, fa esattamente questo: cerca di rendere qualcosa buono da pensare affinché sia ritenuto buono da mangiare. E affinché sia reputato conveniente da vendere”.

L’artigianalità quindi, spesso è un utile mito

Così come la presunta origine italiana del gelato. “Se rinunciamo per un attimo a essere italocentrici, come spesso ci capita di fare dinanzi ai successi mondiali in campo gastronomico, potremmo convenire sul fatto che il gelato è una invenzione senza inventore, capace costantemente di reinventarsi nel tempo. Così come sorbetti, granite, cremolate e via dicendo. Prelibatezze a base di ghiaccio erano consumate nell’antichità classica tra i Romani, i Greci e gli Egizi. Nel Vicino Oriente si degustavano sorbetti triturando il ghiaccio e addizionandolo con essenze naturali e vegetali. Dall’Est del Mediterraneo gli Arabi hanno portato in Sicilia la loro idea di gelato facendo sì che da qui, arricchito di zucchero e di essenze di agrumi, risalisse tutta la Penisola per poi diffondersi ovunque in Europa e nel mondo”.

“Ad ogni passaggio, però, reinventandosi continuamente in nuove forme, in nuovi gusti, in nuovi modi realizzativi, in nuove tipologie di consumatori e in diversi momenti del consumo. Momenti che, se fino a qualche decennio fa prediligevano soprattutto l’estate e i luoghi all’aperto, con il modificarsi progressivo dei gusti, delle tecnologie del freddo e anche dei cambiamenti climatici, hanno reso il gelato un prodotto quattro-stagioni da sorbirsi in casa, per strada, nei luoghi pubblici, a Ferragosto, a Natale. In ogni caso, sempre sotto forma di piacere che ci si auto-concede con lo scopo di premiarsi, di compensarsi, di risarcirsi, di coccolarsi, di sentirsi perennemente fanciulli”. 

Insomma, il gelato non ha nulla da temere. Che sia per la bontà, per le strategie di marketing o per la sua storia, non rischia di essere sostituito da altri alimenti iconici. “I gelati potranno avere nuovi gusti, nuove consistenze, nuove tipologie di consumatori, nuovi momenti e contesti di consumo, ma è altamente improbabile che cessino di essere desiderati o che vengano sostituiti da altro. A meno che la realtà virtuale non proponga una virtualizzazione del gusto. Il piacere, invece, già in molti casi è stato reso virtuale”.


L’esperto: “Il gelato artigianale narrazione utile per vendere”

È l’estate del rosa Barbie, tra moda, cucina e fitness

AGI – Le sprovvedute che nei primi giorni di programmazione sono andate a vedere ‘Barbie’ ignorando il passaparola sul dress code rosa in sala hanno dovuto fare i conti con un effetto Alain Elkann in completo di lino blu sul treno Roma-Foggia dei “lanzichenecchi”.

Una smagata come Ilary Blasi invece lo sapeva eccome ed era pronta a mescolarsi alle ragazzine barbieggianti, come testimoniano i suoi post su Instagram con tuta monospalla attillatissima rosa shocking e trucco glitterato mentre si preparava ad andare al cinema.  Avendo esagerato parecchio, è stata salvata in corner dalla figlia Chanel che sempre via social ha scritto “Tranquilli ragazzi, non l’ho più fatta uscire così”.

Ma adesso, a qualche giorno dal debutto italico del film ultrafemmminista di Greta Gerwig che sta rivitalizzando il botteghino con l’incasso ‘monstre’ di 12 milioni di euro in una settimana, è impossibile non sapere che al cinema bisogna vestirsi come confetti e che c’è un film che fingendo di celebrare la bambola e i colori pastello della Mattel è un manifesto femminista sul diritto a essere sì rosa ma anche imperfette (e a mettere al loro posto i tanti Ken che ogni donna trova sulla sua strada). Perché vetrine, palestre, ristoranti, parrucchieri, videogiochi e perfino le app per incontrare l’anima gemella sono diventati tutti tasselli reali della Barbieland cinematografica.

Sul sito di dating Bumble i protagonisti del film danno consigli a chi cerca la sua Barbie o il suo Ken nella vita vera: “Dal momento che Bumble e Barbie mettono al primo posto la gentilezza, abbiamo deciso di collaborare per incoraggiare la nostra community a inviare messaggi premurosi, diffondendo allegria” così viene spiegata la partnership. Un Truman show in versione rosa al quale anche chi vive come un hikikomori, chiuso nella sua stanza davanti al computer sarà difficile sottrarsi considerando che si è adeguato anche Google, con lo schermo che si tinge inesorabilmente di rosa con brillantini e stelline in tinta che invadono lo schermo se si osa digitare ‘Barbie film’.  

Quella che ruota attorno al film con Margot Robbie e Ryan Gosling è una delle più totalizzanti operazioni di marketing mai viste, un’invasione rosa anticipata da Valentino con la sua ‘Valentino Pink PP collection’ presentata nell’autunno scorso e che quindi ha coinvolto una serie eterogenea di marchi, per tutte le tasche, danarose e non. Procurarsi il vestitino a quadri bianchi e rosa indossato da Margot Robbie nel film è semplicissimo e pure economico, ci ha pensato Zara nella sua capsule ispirata alla bambola di Mattel, per tutte le taglie e i tipi di fisicità in omaggio al messaggio inclusivo del film che annovera anche una Barbie extralarge tra le bambole di successo di BarbieLand.

Mentre impazzano gli aperitivi a tema (ovviamente pink e rigorosamente accompagnati dall’hummus rosa, realizzato con la barbabietola) Superga ha messo sul mercato le sneakers rosa con la scritta Barbie e andare in palestra con la solita canottierina nera fa ormai una tristezza infinita, serve assolutamente il top rosa Barbie, così come stanno andando a ruba gli smalti rosa e glitter, per accecanti “pink nails” come quelle appena sfoggiate da Selena Gomez per il suo 31° compleanno. E ancora: sono rosa “candy” anche le borracce ed è saltata sul carro anche la penna Barbie rosa firmata Montegrappa, anche in versione celeste dedicata al povero Ken..

Ormai si parla di estetica “Barbiecore” in omaggio al rosa: “Tutti volevano una scusa per indossarlo” ha detto non a caso Margot Robbie, il cui biondo sfoggiato nel film adesso è la sfumatura più richiesta dal parrucchiere. Tutti parlano di Barbie e tutti la cercano: non a caso l’hashtag #barbie su TikTok, YouTube e reels di Instagram è aumentato del 145 per cento nella prima metà del 2023 rispetto all’anno scorso. Solo su TikTok i video con lo stesso hashtag hanno accumulato oltre 50 miliardi di visualizzazioni, mentre quelli targati #BarbieTheMovie 1,7 miliardi.

Siamo circondati dall’invasione rosa anche al ristorante, con il “Barbie Burger” inventato da Burger king: un doppio cheeseburger con bacon e cheddar accompagnato da una salsa affumicata addirittura “fucsia”, in un menu che prevede anche le Ken’s Potatoes, (Ken non poteva che essere un contorno, come il povero Gosling nel film). E non sfuggono neanche i vegani visto che Flower Burger, catena di ristoranti vegani, ha creato un hamburger rosa dedicato a Barbie: composto da un mix di lenticchie, riso basmati carote e zucchine come carote e zucchine, racchiusi in un panino colorato con estratto di barbabietola.

Troppo? Il rischio concreto è l’indigestione a tutto campo. Di questo passo, per reazione, torneremo tutti a vestirci di nero. Ma, intanto, divertiamoci a colorare di rosa questa strana estate.


È l’estate del rosa Barbie, tra moda, cucina e fitness

La brusca frenata dell’export di bollicine e prosecco nel mondo

AGI – Brusca frenata per l’industria-locomotiva dell’industria delle bollicine nel mondo. Dopo il vino fermo, anche il Prosecco italiano ha una inversione di tendenza. A certificarlo è l’Osservatorio dell’Unione Italiana Vini (Uiv) secondo cui nel periodo gennaio-aprile 2023 il segno meno davanti agli importi per i volumi delle bollicine si presenta come una costante: -20% nel Regno Unito, -6,8% per gli Stati Uniti, -2,4% in Germania.

“Sostanzialmente è il Prosecco a perdere terreno un po’ dappertutto, anche oltre la media degli sparkling”, gli scintillanti, spiega il Gambero Rosso: ovvero, -20,2% nel Regno Unito, -12,1% in Belgio, -9% in Svizzera, -8,6% in Germania, -4,5% negli Stati Uniti mentre a tirar su le vendite restano solo “Francia (+12,7%) e Russia (+47,9%)”. In quest’ultimo caso, però, la crescita è dovuta a un periodo di stallo delle importazioni legate al conflitto ucraino, “quindi, l’exploit è da prendere con le pinze”, chiosa il mensile gourmet.

A conti fatti, complessivamente nel primo quadrimestre dell’anno 2023 le vendite di Prosecco nel mondo “sono andate giù a volume del 5,9%, tornando sulla linea dei 100 milioni di litri, a fronte di un -3% dell’intero comparto bollicine”. Va bene l’Asti che, in controtendenza, riesce a mettere a segno un +18,7%.

L’altro segno positivo spetta agli spumanti varietali (+11,5%). Da segnalare anche che tra gli scaffali della Grande Distribuzione Organizzata, super e ipermercati, le cose non sembrano andare meglio: come rileva l’analisi dell’Osservatorio Uiv-Ismea su base Nielsen IQ, la tipologia sparkling “è passata da un robusto +4% a volume del primo trimestre a un -0,8% del semestre, tenuta a galla dalla crescita degli Charmat low cost”. In particolare, il Prosecco ha totalizzato un –5,8% in termini di volumi, soprattutto per effetto del brusco stop della Docg (a -21%). E la corsa al ribasso riguarda quasi tutte le denominazioni di sparkling, eccezion fatta sempre “per l’Asti Spumante (+5,9%), insieme agli Charmat a basso costo (+8,6%) che fissano il prezzo a 4,6 euro/litro, quasi il 40% in meno del Prosecco”.

Si tratta di un calo fisiologico che suona anche come un primo segnale di allarme? Secondo Carlo Flamini, responsabile dell’Osservatorio Uiv, “è ancora presto per dirlo” tuttavia “in alcuni Paesi come gli States potrebbe essere la conseguenza di un overstocking del 2022, quindi probabilmente il dato andrà a stabilizzarsi nel proseguo dell’anno”.

Sicuramente, però, prosegue Flamini, “c’è un trend che non si può ignorare e che riguarda quasi tutti i mercati: il consumatore, forzato dall’aumento dei costi della vita, è diventato molto più attento al portafoglio, scoprendo così di poter bere bollicine meno costose; a maggior ragione se parliamo di consumi casalinghi legati alla mixology”. In questo caso leggasi: Spritz.

“Non a caso”, conclude Flamini, “gli unici spumanti a crescere in questa prima parte sono gli Charmat secchi, magari sempre prodotti a partire da uva glera: una sorta di surrogato del Prosecco”.

 


La brusca frenata dell’export di bollicine e prosecco nel mondo

I bambini italiani sono i più maleducati a tavola

AGI – I bimbi italiani risultano essere i più maleducati a tavola. Specie se al ristorante. Non è un’osservazione ad occhio nudo, ma lo certifica uno studio dell’Istituto Italiano di Studi Transdisciplinari: “Mani intrise di sugo strisciate sui muri, lancio di pezzi di pane, tovagliolo inzuppato nella bibita o nel pappone mescolato nella coppa gelato, bagni allagati e rivestiti di carta igienica, mentre mamma e papà chiacchierano indisturbati”, riassume un articolo del Gambero Rosso.

Sono questi i principali capi d’accusa verso i bambini italiani. Chiosa il mensile dei consumatori curiosi e golosi: “Se un bambino si comporta male al ristorante, la colpa non è sua. I piccoli sono grandi imitatori e imparano soprattutto osservando noi grandi. Le buone maniere a tavola devono dunque partire da casa”.

E ancora: “Un bambino (così come un adulto) non deve disturbare gli altri ospiti, quindi ignorare un bambino che si alza da tavola per correre tra i tavoli e intralciare il lavoro dei camerieri è il comportamento da condannare nel genitore, non nel bambino”.

Ma la reprimenda genitoriale parte da una domanda delle domande: “Un bambino che corre, urla o che lascia il tavolo come un campo di battaglia è maleducato, o semplicemente educato male?”

Segue naturalmente un decalogo di un buon comportamento, secondo cui “al ristorante si va per mangiare e stare insieme”, non per urlare, non per cantare, non per correre, non per giocare. Quindi “forchetta e cucchiaio si usano per portare il cibo alla bocca”, e non il contrario. Le posate sono da impugnare e usare correttamente e “non per lanciare un tappo di sughero o un pezzetto di carta arrotolato e fissato con un elastico a un paio di bacchette cinesi”.

Una pietanza non piace? “Compito del genitore sarà di stabilire la regola che si assaggia tutto quello che viene portato a tavola. Se poi non piace, lo si dice senza fare scenate”. Quinto: non ci si dondola sul seggiolone o la sedia; i camerieri del ristorante si ringraziano; non si gioca con i cibi nel piatto; non si parla o si ride a bocca piena; no baby-sitter digitale, “quando si mangia insieme al ristorante, l’elettronica si tiene spenta”.

Ultimo e decimo comandamento, “gestire lacrime e strilli”. Meglio, “se un bambino piange al ristorante spesso è perché è stanco”. E alle undici di sera “il ristorante è davvero il luogo migliore per un bambino?” ci si domanda. Quindi, novantanove volte su cento, “se i bambini piangono a squarciagola al ristorante, non è colpa loro” e “obbligare un bambino a un pranzo interminabile è una crudeltà”.

Una volta si diceva: “Dopo Carosello, tutti a nanna”… Ora non più.


I bambini italiani sono i più maleducati a tavola