Così il Google Feed risponde alle nostre scelte e ricerche

AGI – I maggiori fattori di coinvolgimento con le notizie inaffidabili fornite dal Google Feed sembrano dipendere principalmente dalle selezioni precedenti piuttosto che dall’attenzione dell’algoritmo o dall’ideologia politica dell’utente. Lo rivela uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati della Rutgers School of Communication and Information, dell’Università di Stanford e della Northeastern University.

Nonostante il ruolo cruciale che gli algoritmi svolgono nella selezione di notizie proposte all’utente, poche ricerche si sono concentrate sull’analisi dei metodi di assortimento del Feed. Il team, guidato da Katherine Ognyanova, ha confrontato l’esposizione, ovvero l’insieme di link presenti nei risultati di ricerca, i follow, collegati alle pagine che le persone scelgono di visitare, e il coinvolgimento, cioè l’insieme di siti visitati da un utente durante la navigazione.

I ricercatori hanno affrontato la preoccupazione di lunga data secondo cui gli algoritmi digitali apprendano dalle preferenze espresse in base alle cronologie e dalle informazioni superficiali per soddisfare gli atteggiamenti e i pregiudizi degli utenti stessi. I risultati del feed, sostengono gli esperti, sembrano differire di poco in base alle ideologie politiche di base, ma si distanziano quando le persone iniziano a visitare determinate pagine web.

Questo lavoro, commentano gli studiosi, evidenzia che a volte gli algoritmi di Google possono generare risultati polarizzanti e potenzialmente pericolosi, anche se questi emergono in modo uniforme tra gli utenti con opinioni politiche diverse. Il gruppo di ricerca ha raccolto informazioni in due ondate, valutando i risultati di un sondaggio con i dati empirici provenienti da un’estensione del browser progettata per misurare esposizione e coinvolgimento in relazione a determinati contenuti online durante le elezioni statunitensi del 2018 e del 2020.

Nell’ambito dell’indagine, 1.021 partecipanti hanno installato un’estensione del browser per Chrome e Firefox. Il software ha registrato gli URL dei risultati di ricerca di Google, la cronologia e una serie di dati relativi ai contenuti visionati dagli utenti. Il sondaggio era invece volto a distinguere l’orientamento politico dei soggetti. I risultati hanno mostrato che l’identificazione e l’ideologia politiche non erano correlate all’esposizione e alla qualità di notizie a cui gli utenti erano esposti.

Al contrario, sembrava emergere un chiaro legame tra l’identificazione politica e l’interazione con contenuti polarizzanti. “I motori di ricerca – commenta Ognyanova – tendono a mostrare alle persone contenuti inaffidabili, ma il nostro lavoro sottolinea che gli utenti stessi e le scelte compiute nel tempo possono influenzare direttamente la tipologia di link che vengono proposti nel proprio Feed”. 


Così il Google Feed risponde alle nostre scelte e ricerche

Le relazioni poliamorose fanno bene alle coppie. Lo dice un filosofo

AGI – Più duratura, più adatta a crescere i bambini e più felice: è la relazione poliamorosa secondo Justin Clardy, professore di filosofia alla Santa Clara University, una delle principali università gesuite negli Stati Uniti. Il suo libro “Why It’s OK to Not Be Monogamous” è un elogio delle relazioni poliamorose che smonta, a suon di numeri e ragionamenti filosofici, i più comuni pregiudizi su questa nuova forma di relazione affettiva in forte aumento, soprattutto tra i giovani. Con il termine poliamore si indica la possibilità di intrattenere più di una relazione intima contemporaneamente, con il consenso esplicito e consapevole di tutte le persone coinvolte. Viene coniato e usato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1990 da Morning Glory Zell-Ravenheart (pseudonimo di Diana Moore), leader di una comunità neopagana americana, che pubblica nella rivista “Green Egg Magazine”, fondata col marito Oberon Zell-Ravenheart, un articolo intitolato A Bouquet of Lovers: strategies for responsible open relationships, in cui spiega i meccanismi del suo matrimonio aperto ed espone il suo ideale di relazione ‘multipla’, basata sul coinvolgimento sessuale e sentimentale di più persone contemporaneamente.

Dal punto di vista linguistico, si rifà alla parola inglese polyamory, formata dal prefisso di origine greca poly- e dal sostantivo latino amor ‘amore’ con l’aggiunta del suffisso nominale -y, sul modello di polygamy. Dice Clardy che i poliamorosi affrontano lo stigma e la discriminazione nella loro vita quotidiana; tuttavia, da una ricerca emerge che avere una relazione romantica con più di una persona alla volta può offrire benefici emotivi e fisici a tutte le parti. “La monogamia” – sostiene Clardy – “è spesso descritta come la forma ideale di amore romantico in molte società moderne. Dalle storie che leggiamo da bambini, ai film e ai libri che consumiamo da adulti, ci viene detto che per raggiungere la felicità dobbiamo trovare la nostra unica vera anima gemella con cui condividere il resto della nostra vita”. “Allo stesso tempo, – prosegue – stati e governi offrono incentivi finanziari, legali e sociali alle coppie sposate. Nel frattempo, uomini e donne che si discostano da queste norme monogame sono trattati come paria e svergognati pubblicamente.

Tuttavia, nonostante ciò, le relazioni poliamorose sono in aumento. Si stima che tra il 4 e il 5% della popolazione statunitense sia attualmente coinvolta in relazioni consensualmente non monogame”. Uno studio del 20210, citato nel libro, ha rilevato che circa un adulto su 500 negli Stati Uniti si è identificato come poliamoroso. Un numero crescente di studiosi di giurisprudenza e politica sta sostenendo la necessità di riforme delle attuali leggi sulla famiglia in modo che riconoscano l’ampia varietà di relazioni personali intime in cui gli esseri umani possono prosperare. “I poliamorosi corrono il rischio di essere licenziati, negati l’alloggio o la cittadinanza, o che i loro figli vengano portati via da loro a causa delle loro identità e stili di vita poliamorosi”, afferma Justin Clardy, professore di filosofia alla Santa Clara University. “Tuttavia, in molti casi le relazioni poli sono più durature di quelle monogame, perché la loro flessibilità consente loro di soddisfare esigenze mutevoli nel tempo in un modo che le relazioni monogame non fanno”.

Il professor Clardy ha dedicato la sua carriera accademica allo studio dell’eticità degli stili di relazione non monogami e delle ingiuste conseguenze politiche affrontate dai non monogami. Nel suo primo libro, Clardy riassume i principali argomenti che vengono comunemente addotti a sostegno della monogamia. Quindi smonta ognuno con una ricerca approfondita. Ad esempio, esiste una teoria secondo cui gli esseri umani si sono evoluti per essere monogami perché i bambini umani richiedono maggiori cure, poiché nascono in un’età gestazionale più giovane rispetto ad altri mammiferi. Il professor Clardy spiega: “La monogamia è quindi vista come l’ordine ‘naturale’ delle cose.

Tuttavia, molte coppie monogame omosessuali ed eterosessuali o non vogliono o non possono avere figli, ma questo non esclude loro di potersi sposare e di godere dei diritti e dei privilegi che derivano dal matrimonio. “Altri potrebbero vedere la monogamia come un comando morale dato da Dio, tuttavia, questo significa che gli atei e gli agnostici sono esclusi dall’amore romantico, anche se si trovano in relazioni romantiche monogame felici, sane e soddisfacenti?” Uno degli argomenti più comuni contro il poliamore è che incita dolorosi sentimenti di gelosia; tuttavia, anche le coppie monogame provano questa emozione.

In effetti, Clardy sostiene che in molti casi la vulnerabilità, la possessività e il senso di diritto all’amore di un’altra persona sono più al centro della gelosia di quanto ci teniamo ad ammettere. Clardy sostiene che il poliamore, d’altra parte, può giovare alle relazioni focalizzando nuovamente la nostra attenzione su come se la cava il proprio partner nelle altre relazioni intime. “Se governate dal mutuo consenso e dalla comprensione, le relazioni poliamorose possono consentire alle persone di condividere più pienamente la felicità degli altri”, afferma Clardy. “Questo può essere ottenuto affrontando e gestendo la propria vulnerabilità, ammorbidendo la nostra propensione alla gelosia e imparando a prestare attenzione alla prosperità degli altri”. Alcuni dei critici più aspri dei poliamoristi sostengono che la non monogamia è dannosa per l’unità familiare, portando al divorzio e alla disgregazione delle famiglie.

Tuttavia, secondo Clardy, le famiglie poliamorose esistono e prosperano, e un tale accordo può effettivamente giovare ai bambini. “Potrebbe non essere necessario un intero villaggio per crescere un bambino, ma è ovvio che, a parità di condizioni, avere più di un ‘padre’ o ‘madre’ come badante può essere ancora più favorevole a soddisfare i bisogni dei bambini, poiché i bambini possono essere amati e nutriti in famiglie non convenzionali”, afferma Clardy. “In effetti, potrebbe risultare che in media l’esistenza di più di due caregiver sia l’accordo genitoriale superiore.” Nel capitolo finale del suo libro, Clardy sostiene che è moralmente sbagliato imporre la monogamia alla società e chiede allo stato di sostenere le relazioni poliamorose oltre a quelle monogame. “Le relazioni poliamorose hanno bisogno del sostegno e della protezione che lo stato è l’unico in grado di fornire e che è nella posizione migliore per realizzare”, sostiene Clardy. “Solo perché un modo di relazionarsi potrebbe deviare da norme sociali consolidate come la monogamia, ciò non significa che non abbiano un valore considerevole, moralmente, socialmente o politicamente”, conclude il filosofo Usa. 


Le relazioni poliamorose fanno bene alle coppie. Lo dice un filosofo

Android 14 dirà addio alle app più inutili di sempre

Android 14 è la prossima generazione del robottino verde, che arriverà prima sugli smartphone Pixel e poi sugli altri top di gamma Android, e non solo. L’abbiamo già in parte conosciuta grazie alle prime Developer Preview rilasciate da BigG.

Abbiamo già conosciuto molti dettagli in merito ad Android 14, ne abbiamo parlato proprio in questo articolo. Nelle ultime ore sono emerse interessanti novità che riguardano sempre Android 14 e che segnano un importante punto di svolta rispetto alle versioni precedenti del robottino verde.

Grazie al lavoro svolto da Mishaal Rahman siamo in grado di vedere come Android 14 impedirà alle app task killer di funzionare. Per app task killer intendiamo la pletora di app presenti sul Play Store che promettono di ottimizzare lo smartphone andando a chiudere automaticamente e in maniera indiscriminata tutte le app in esecuzione.

Queste app promettono di liberare la memoria, ottimizzare la durata della batteria e tanto altro. In realtà l’esperienza insegna che l’effetto di queste app quasi mai è positivo, anzi spesso è negativo proprio nei confronti del dispendio di risorse di sistema. Anche Google è d’accordo e per questo motivo intende limitare pesantemente il loro funzionamento.

Secondo Google infatti le app task killer influiscono negativamente sul sistema Android. Questo perché interrompere senza criterio l’esecuzione delle app in background implica un maggiore dispendio di risorse per riaprirle nel caso vengono utilizzate spesso dall’utente.

Google ha quindi in mente di imporre la possibilità di terminare esclusivamente i processi associati all’app stessa per ogni app installata su Android 14. In questo modo le app task killer non avranno più senso di esistere, visto che non potranno terminare i processi relativi all’esecuzione di altre app. Google ha messo nero su bianco la motivazione, in modo da chiarirla anche agli sviluppatori:

Non è possibile per un’applicazione di terze parti migliorare la memoria, l’autonomia o il comportamento termico di un dispositivo Android.

La scelta di Google la riteniamo sicuramente sensata, e finalmente sarà uno standard per tutti gli sviluppatori e una consapevolezza per gli utenti finali. Riguardo le app in background su Android abbiamo scritto una guida molto approfondita che ne esamina il significato, e vi consiglia come gestirle e come eventualmente chiuderle manualmente.

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Android 14 dirà addio alle app più inutili di sempre

Scopri gli sfondi per iPhone da abbinare alle nuove cover Apple per la primavera 2023!

Hai scoperto i nuovi colori della collezione primaverile di Apple per le custodie per iPhone?

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Scopri gli sfondi per iPhone da abbinare alle nuove cover Apple per la primavera 2023!

I social vicini a Trump vogliono costruire un’alternativa alle big tech

AGI – Donald Trump e i vertici di Truth Social, la piattaforma voluta dall’ex presidente Usa per esprimere le proprie opinioni con margini di moderazione più flessibili rispetto ai social tradizionali, hanno accolto con favore l’acquisizione di Parler, da parte del rapper Kanye West.

Stiamo costruendo un intero ecosistema parallelo che non può essere cancellato dalle big tech” ha dichiarato a Fox News Devin Nunes, ex membro del Congresso e ceo di Truth Social. Secondo Nunes è “assolutamente necessario” avere la libertà di parola per consentire agli americani di esprimere le loro opinioni politiche, in modo che i cittadini non possano essere messi a tacere da “algoritmi complicati” e “divieti ombra”.

Per Nunes “l’obiettivo che il presidente Trump e io ci siamo prefissati qui è molto semplice, ed è quello di riaprire Internet, per restituire al popolo americano la propria voce”.


Parler, lanciata nel 2018, quartier generale a Nashville, ha raccolto a oggi 56 milioni di dollari di finanziamenti ed stato reintegrato negli app store di Google (a settembre) e Apple (ad aprile 2021) dopo essere stata rimossa in seguito alle rivolte di Capitol Hill del 6 gennaio 2021: era stata accusata di aiutare i rivoltosi a pianificare e coordinare l’assalto al Campidoglio.

Anche Amazon aveva espulso Parler dal suo servizio di web hosting. Parler rivendica un trattamento ingiusto da parte di Twitter e delle altre app e si definisce “free speech” alternative to Twitter. Nata con la promessa di politiche di moderazione più flessibili rispetto alle piattaforme tradizionali, Parler è sulla stessa linea di Gettr, piattaforma gestita dall’ex consigliere di Trump Jason Miller, e appunto dell’app di Trump, Truth Social. 

Secondo la società che si occupa del suo sviluppo, Parler ha 16,5 milioni di utenti registrati. Secondo la società di ricerca Apptopia invece la piattaforma è stata installata 11,7 milioni di volte dal lancio, con una stima di 40 mila utenti attivi giornalieri.

Parler è diventata la migliore app scaricata su Apple dopo che Facebook e Twitter hanno bannato Trump all’inizio di gennaio 2021. Da allora, la sua popolarità però è crollata. Sensor Tower, piattaforma di analisi, stima che solo 9 mila persone abbiano scaricato l’app il mese scorso, producendo entrate inferiori a 5mila dollari.

Kanye West (2 miliardi il suo patrimonio stimato, secondo Forbes), il 3 ottobre, ha partecipato da stilista alla settimana della moda di Parigi, indossando una maglietta con la frase: “White Lives Matter”. Quattro giorni dopo, ha pubblicato un post antisemita su Instagram ed è stato bannato.

L’8 ottobre il musicista è stato bannato da Twitter (West aveva 31,4 milioni di follower) in seguito alla pubblicazione di un post del medesimo tenore. A causa delle sue posizioni, all’inizio di ottobre, Kanye West ha interrotto la partnership con il rivenditore di abbigliamento Gap, mentre è in forse l’accordo con Adidas.


I social vicini a Trump vogliono costruire un’alternativa alle big tech

Con il Pixel Tablet, Google dirà addio definitivamente alle app a 32 bit

Durante la conferenza Google I/O di quest’anno, BigG ha “annunciato” anche un Pixel Tablet: il dispositivo è ancora avvolto nel mistero e si conoscono davvero pochissimi dettagli, ma scavando a fondo nel codice di Android è stato scoperto che il tablet sarà il primo dispositivo “solo a 64 bit” dell’azienda, e dunque decreterà di fatto la fine delle app a 32 bit.

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Mishaal Rahman ha infatti scoperto nel codice open source di Android che un dispositivo dal nome in codice Tangor sarà “64-bit only”: Tangor è proprio il nome in codice del Pixel Tablet, che dunque sarà quasi sicuramente un dispositivo in grado di eseguire esclusivamente app in 64 bit (la stragrande maggioranza delle app sul Play Store è già a 64 bit, per cui nessun problema di compatibilità in questo senso).

Il supporto esclusivo alle app a 64 bit è un qualcosa che era già in mente da tempo agli ingegneri Google: l’azienda infatti ha iniziato a sviluppare componenti del sistema operativo a 64 bit anni fa e Android 12 è stata la prima versione del robottino verde ad essere compilata con alcuni componenti solo a 64 bit (e logicamente, per Android 13 è stato fatto lo stesso).

I benefici delle app a 64 bit sono molti, ma quello principale riguarda l’ottimizzazione: app di questo tipo infatti richiedono solitamente meno memoria RAM per funzionare a dovere. Oltre a questo, il passaggio ai 64 bit è quasi fondamentale, visto che i recenti Cortex-X3 e Cortex-A715 supportano solo questa tecnologia.

A differenza di Apple, che ha iniziato a supportare esclusivamente software a 64 bit sin dal 2017, Google deve fare i conti con la frammentazione del sistema operativo: i vari produttori potrebbero infatti supportare ancora app a 32 bit, e dunque Android deve comunque garantire la possibilità di utilizzare app di questo tipo. In ogni caso, il fatto che Google voglia accelerare il passaggio ai 64 bit è sicuramente da apprezzare (non è escluso che i prossimi smartphone Pixel possano seguire la stessa strada del tablet).

Non essendoci ancora nessuna ufficialità, c’è sempre la possibilità che Google decida di testare internamente il supporto esclusivo ai 64 bit e decidere il da farsi in seguito: in parole povere, Pixel Tablet potrebbe comunque arrivare con il supporto alle app a 32 bit nel caso in cui Google riscontri problemi di compatibilità. Maggiori informazioni arriveranno sicuramente prima del lancio del prodotto.

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Con il Pixel Tablet, Google dirà addio definitivamente alle app a 32 bit

Dalle email alle Big Tech, ecco quanto inquina Internet

AGI – Ogni ricerca su Internet è responsabile dell’immissione nell’atmosfera di 1,7/2 grammi di CO2. Un solo server può arrivare a produrre in un anno da 1 a 5 tonnellate di anidride carbonica. Il semplice invio di un’email può comportare la produzione di anidride carbonica da 4 fino a 50 grammi (se gli allegati sono di grandi dimensioni).  Non solo: il consumo energetico dei data center è pari all’1% della domanda globale di energia.

Quanto “pesa”  poi in termini di inquinamento ogni gigabyte su Internet? Produce emissioni di CO2 tra i 28 e i 63 grammi. Tanto per essere chiari, secondo uno studio della Royal Society di fine 2020, in un anno un utente medio che utilizza la posta elettronica per lavoro può arrivare a emettere 135 chili di CO2. Per quello studio le tecnologie digitali contribuiscono tra l’1,4% e il 5,9% alle emissioni globali di CO2.

È un po’ questo il punto di partenza di ogni ricerca che abbia come obiettivo il dare una dimensione di quanto inquinano le nostre attività quotidiane online. Se alziamo lo sguardo, questi numeri, ci portano dritti alle aziende che dei servizi su Internet hanno fatto un business gigantesco, inquinando come uno Stato. Proprio così.

Nel dettaglio l’Osservatorio ESG Karma Metrix (progetto dell’agenzia di digital marketing Avantgrade.com, che misura la carbon footprint delle pagine Web), i cui dati sono stati resi noti  in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, ci dice che i nostri microcomportamenti quotidiani fanno sì che  Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google in 1 anno abbiano consumato 49,7 Milioni di MWh quasi come la Romania (50) e più di Portogallo e Grecia

In generale, dal 2018 al 2020 (anni per cui sono disponibili i bilanci di sostenibilità delle aziende, passati al setaccio dagli analisti di Karma Metrix) il consumo di energia delle 5 Big Tech è quasi triplicato, passando da 16,6 a 49,7 Milioni MWh.

E Internet? Il report cita anche il Global Carbon Project, la sua stima è che se Internet fosse una nazione sarebbe la quarta più inquinante al mondo. Ricordiamo che la Rete produce emissioni di CO2 sia per le modalità poco efficienti di realizzare siti web e app, sia per i combustibili fossili che alimentano i data center.
Sempre secondo lo studio della Royal Society riportato dal World Economic forum, il digitale contribuirebbe alle emissioni mondiali di CO2 per una quota compresa tra l’1,4 per cento e il 5,9 per cento del totale (per fare un paragone, il traffico aereo contribuisce solo al 2%).

La tecnologia utile all’ambiente

Il punto è che la transizione energetica non può non essere guidata dai dati, il settore tecnologico dovrebbe dare l’esempio e fornire i dati necessari per consentire il monitoraggio del consumo di energia e delle emissioni di carbonio e le autorità di regolamentazione dovrebbero sviluppare linee guida sulla proporzionalità energetica delle applicazioni digitali.

il mining di criptovalute

In tutto questo deve essere considerato anche il valore in termini di inquinamento delle criptovalute. Secondo uno studio di Digiconomist, citato da The Guardian a fine 2021, una singola transazione bitcoin utilizza la stessa quantità di energia che consuma una famiglia americana media in un mese, il che equivale a circa un milione di volte in più in emissioni di carbonio rispetto a una singola transazione con carta di credito. E a livello globale, l’impronta di carbonio del mining di bitcoin è maggiore di quella degli Emirati Arabi Uniti e scende appena al di sotto dei Paesi Bassi.

+17% di Co2 in tre anni

In particolare l’analisi di Karma Metrix, ha estratto dal report i valori di energia consumata e di CO2 prodotta per ogni anno. Dai dati emerge che Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google hanno emesso 98,7 milioni di tonnellate di CO2, più dell’intera Repubblica Ceca (92,1), con un aumento aggregato delle emissioni totali del 17% dal 2018 al 2020. Tra le cinque aziende spiccano tuttavia “dei segnali positivi di riduzione della Co2 di Apple e Google – spiega lo studio – grazie al maggior peso delle fonti energetiche rinnovabili e alla ricerca attiva di efficienza energetica nei loro data center”.


Dalle email alle Big Tech, ecco quanto inquina Internet

Nuova versione beta di WhatsApp: arrivano i primi cambiamenti alle Reazioni

Da qualche settimana sono arrivate finalmente le Reazioni ai messaggi di WhatsApp, ma gli sviluppatori hanno già iniziato a mettere le mani su questa funzione: in un nuovo aggiornamento beta dell’app di messaggistica, si nota infatti un primo cambiamento alla schermata che mostra tutte le Reazioni.

In particolare, questo cambiamento riguarda le Reazioni inviate a un gruppo di foto o video, che WhatsApp raggruppa automaticamente in un unico messaggio: adesso infatti, nella schermata che mostra l’elenco degli utenti che hanno messo una Reazione, sarà visualizzata anche un’anteprima della foto o del video a cui è stata messa la Reazione. In precedenza infatti non era possibile capire quale foto aveva una Reazione se non aprendo la galleria creata automaticamente dall’app. In fondo all’articolo, una foto che rende meglio l’idea.

Questo utile cambiamento è già in rollout con la versione 2.22.12.14 beta di WhatsApp, ma sicuramente arriverà nelle prossime settimane anche sul canale stabile. Nel caso in cui vogliate provare la versione beta, potete aderire al programma apposito da questa pagina.

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Nuova versione beta di WhatsApp: arrivano i primi cambiamenti alle Reazioni

App che rubano le credenziali di Facebook e le chiavi di accesso alle criptovalute: nuove minacce

Capita nel Play Store di trovare app che sfuggono ai controlli del team di Google ed eseguano operazioni dannose come il furto di credenziali utente e altre informazioni sensibili, comprese le chiavi private di accesso al portafoglio di criptovalute. Alcune di queste app sono state scaricate anche centomila volte, e il sito Trend Micro le ha analizzate per scoprire come funzionano.

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Molte app contengono varianti del malware chiamato “Facestealer“, che come suggerisce il nome sottrae le credenziali di accesso a Facebook, in modo da usarle per phishing, post falsi o altro. Nel database MARS (Mobile App Reputation Service) di Trend Micro sono state rilevate più di 200 app che contengono questo spyware, principalmente camuffate da app di fitness, fotoritocco e VPN, e sono già state rimosse dal Play Store.

Il meccanismo è piuttosto complesso ed è favorito dal modo in cui Facebook gestisce la sua politica di gestione dei cookie. All’avvio dell’app, questa invia una richiesta a un sito per scaricare una configurazione crittografata. A quel punto l’app aspetta che appaia un prompt per l’accesso a Facebook e quando ciò avviene avvia una visualizzazione web che in pratica ruba le credenziali che l’utente inserisce tramite un cookie, e le manda crittografate a un server (qui trovate la spiegazione tecnica completa, veramente illuminante).

Alcune di queste app sono:

  • Daily Fitness OL
  • Enjoy Photo Editor
  • Panorama Camera
  • Photo Gaming Puzzle
  • Swarm Photo
  • Business Meta Manager

Trend Micro ha poi scovato più di 40 false app per il mining di criptovalute, anche in questo caso già rimosse dal Play Store, progettate per indurre gli utenti ad acquistare servizi a pagamento o a cliccare su annunci pubblicitari attirandoli con la prospettiva di guadagni fasulli in criptovaluta.

Le app sono per la maggior parte sviluppate usando Kodular, una suite online gratuita per lo sviluppo di app, e per esempio nel caso di “Cryptomining Farm Your own Coin” richiedono chiavi private, caricandole su siti web all’apparenza legittimi che però non solo non sono crittografati, ma caricano le chiavi private e rubano anche le frasi mnemoniche (serie di parole non correlate che vengono generate quando viene creato un portafoglio di criptovalute in modo da recuperare il denaro in caso si perda il portafoglio). In alcuni casi, addirittura gli attori malevoli cercano di attrarre le vittime proponendo 0,1 ETH (240 dollari). 

Di nuovo vi rimandiamo al testo originale, consigliandovi di cercare di prestare la dovuta attenzione controllando le recensioni (soprattutto negative) delle app, e controllando anche gli sviluppatori coinvolti. Trend Micro ritiene che in futuro possano apparire altri metodi per rubare chiavi private e frasi mnemoniche.

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I nuovi Collectibles Android strizzano l’occhiolino alle prossime novità Google

Nel mondo Android una delle costanti presenti ormai da anni sono i Collectibles del robottino verde realizzati con licenza ufficiale da Dead Zebra. Nelle ultime ore sono trapelati online quelli che stanno per arrivare nel 2022.

Le immagini che trovate nella galleria in basso mostrano un’anteprima dei nuovi collezionabili Android realizzati da Dead Zebra. Il tema principale è @Work e alcuni di essi sono molto interessanti perché potrebbero includere delle allusioni alle prossime novità in casa Google: troviamo ad esempio l’esperto di cybersecurity che ha al polso uno smartwatch, che sia proprio il Pixel Watch?

Un secondo elemento invece tiene tra le mani un Pixelbook. Che entrambi siano segni di novità hardware in casa Google? Su Pixel Watch abbiamo ormai la quasi certezza, staremo a vedere se arriverà a breve anche un nuovo Pixelbook.

I nuovi collezionabili Android sono dunque tutti centrati su varie figure professionali. Al momento il set è stato pubblicato sullo store Dead Zebra ma non è ancora disponibile all’acquisto.

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I nuovi Collectibles Android strizzano l’occhiolino alle prossime novità Google

Galaxy S21 Ultra già in pensione: stop alle vendite in alcuni mercati

La presentazione di Samsung Galaxy S22 Ultra è dietro l’angolo e sembrerebbe proprio che l’azienda coreana voglia puntare tutto su questo smartphone: il suo predecessore infatti è già vicino alla pensione, dopo solo un anno dal rilascio al pubblico.

Samsung ha fermato le vednite del dispositivo in diversi mercati e dunque in Francia, Germania e Regno Unito non è più possibile acquistare un Galaxy S21 Ultra dal sito ufficiale del produttore. Ovvaimente lo smartphone rimane disponibile ancora negli store di terze parti. Sicuramente presto Samsung fermerà la vendita anche in altri mercati e probabilmente cesseà anche la produzione di massa.

Nessun problema invece per gli altri dispositivi della serie: Galaxy S21, S21 Plus e ovviamente il recente S21 FE restano ancora disponibili.

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Galaxy S21 Ultra già in pensione: stop alle vendite in alcuni mercati