Cast to TV: il mirroring e lo streaming non sono mai stati così semplici

Con l’evoluzione della tecnologia i nostri smartphone sono diventati anche il mezzo con il quale accediamo maggiormente ai contenuti multimediali. Questo accade soprattutto con i dispositivi Android.

E quando si parla di contenuti multimediali, ha senso anche parlare di mirroring e casting, visto che le dimensioni del display dei nostri telefoni rimangono sempre limitati. In questo contesto negli ultimi giorni abbiamo provato l’app Cast to TV, una delle alternative più interessanti tra quelle gratis per trasmettere contenuti di qualsiasi tipo alla propria TV.

L’app Cast to TV è molto simile a Web Video Caster, quella che abbiamo provato qualche settimana fa, e presenta delle interessanti peculiarità rispetto ai servizi offerti da Google e dagli altri produttori attivi nel settore del casting.

L’app si presenta con un’interfaccia relativamente aggiornata e semplice. Non parliamo di Material You ma sicuramente semplice da navigare. Potete averne un’anteprima osservando gli screenshot che trovate in basso.

L’app Cast to TV ha l’obiettivo principale di trasmettere qualsiasi tipo di contenuto multimediale dal telefono a qualsiasi dispositivo idoneo connesso alla stessa rete Wi-Fi. Per dispositivo idoneo si intende un dispositivo connesso alla TV o a uno schermo in grado di riprodurre contenuti multimediali. Ci viene subito in mente Chromecast, ma possiamo anche pensare ai vari modelli Nest oppure ad altri dispositivi di terze parti.

Andiamo a vedere quali sono le funzionalità di Cast to TV che ci sono piaciute di più:

  • L’app è in grado di riprodurre qualsiasi contenuto presente nella memoria interna del telefono sul quale è installata. Quindi parliamo di video, foto e audio. L’app offre una sorta di file manager integrato con il quale è possibile scorrere tutto l’archivio interno, anche tramite contenuti categorizzati.
  • L’app offre un web browser integrato. Con questo è possibile trasmettere qualsiasi contenuto presente online.
  • L’app vi permette di crearvi delle playlist personalizzate. Queste possono raccogliere una serie di contenuti presenti in locale, oppure dei contenuti presenti sul web.
  • Tramite il web browser è possibile connettersi anche a eventuali archivi personali in rete, come ad esempio quelli presenti un NAS.

Insomma, tra le cose che ci sono piaciute di più di Cast to TV troviamo sicuramente la trasversalità in termini di contenuti che è possibile trasmettere. Peccato che gli annunci pubblicitari a volte interferiscono con l’utilizzo dell’app.

In generale, ci sentiamo di consigliarvela soprattutto se avete la necessità di effettuare mirroring o casting di contenuti che sono presenti online oppure avete la necessità di creare database con playlist strutturate da trasmettere.

Come menzionato sopra, l’app Cast to TV è disponibile al download gratuito sul Play Store. L’utilizzo non prevede limitazioni nella versione free ma la presenza di annunci pubblicitari.

Qui sotto trovate il pulsante diretto per scaricarla e installarla dal Play Store.

Scarica da Play Store

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Cast to TV: il mirroring e lo streaming non sono mai stati così semplici

Così il Google Feed risponde alle nostre scelte e ricerche

AGI – I maggiori fattori di coinvolgimento con le notizie inaffidabili fornite dal Google Feed sembrano dipendere principalmente dalle selezioni precedenti piuttosto che dall’attenzione dell’algoritmo o dall’ideologia politica dell’utente. Lo rivela uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati della Rutgers School of Communication and Information, dell’Università di Stanford e della Northeastern University.

Nonostante il ruolo cruciale che gli algoritmi svolgono nella selezione di notizie proposte all’utente, poche ricerche si sono concentrate sull’analisi dei metodi di assortimento del Feed. Il team, guidato da Katherine Ognyanova, ha confrontato l’esposizione, ovvero l’insieme di link presenti nei risultati di ricerca, i follow, collegati alle pagine che le persone scelgono di visitare, e il coinvolgimento, cioè l’insieme di siti visitati da un utente durante la navigazione.

I ricercatori hanno affrontato la preoccupazione di lunga data secondo cui gli algoritmi digitali apprendano dalle preferenze espresse in base alle cronologie e dalle informazioni superficiali per soddisfare gli atteggiamenti e i pregiudizi degli utenti stessi. I risultati del feed, sostengono gli esperti, sembrano differire di poco in base alle ideologie politiche di base, ma si distanziano quando le persone iniziano a visitare determinate pagine web.

Questo lavoro, commentano gli studiosi, evidenzia che a volte gli algoritmi di Google possono generare risultati polarizzanti e potenzialmente pericolosi, anche se questi emergono in modo uniforme tra gli utenti con opinioni politiche diverse. Il gruppo di ricerca ha raccolto informazioni in due ondate, valutando i risultati di un sondaggio con i dati empirici provenienti da un’estensione del browser progettata per misurare esposizione e coinvolgimento in relazione a determinati contenuti online durante le elezioni statunitensi del 2018 e del 2020.

Nell’ambito dell’indagine, 1.021 partecipanti hanno installato un’estensione del browser per Chrome e Firefox. Il software ha registrato gli URL dei risultati di ricerca di Google, la cronologia e una serie di dati relativi ai contenuti visionati dagli utenti. Il sondaggio era invece volto a distinguere l’orientamento politico dei soggetti. I risultati hanno mostrato che l’identificazione e l’ideologia politiche non erano correlate all’esposizione e alla qualità di notizie a cui gli utenti erano esposti.

Al contrario, sembrava emergere un chiaro legame tra l’identificazione politica e l’interazione con contenuti polarizzanti. “I motori di ricerca – commenta Ognyanova – tendono a mostrare alle persone contenuti inaffidabili, ma il nostro lavoro sottolinea che gli utenti stessi e le scelte compiute nel tempo possono influenzare direttamente la tipologia di link che vengono proposti nel proprio Feed”. 


Così il Google Feed risponde alle nostre scelte e ricerche

Un Lenovo ThinkPhone è un’idea così folle?

Nel settore degli smartphone sappiamo che ormai da un decennio Motorola è stata acquisita da Lenovo, nonostante abbia mantenuto la sua indipendenza. Ma clamorose novità potrebbero essere all’orizzonte proprio per gli smartphone Lenovo.

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Finora infatti abbiamo visto Motorola molto attiva nel settore smartphone, soprattutto con i suoi medio-gamma e con i top di gamma della serie Edge. Ma allora cosa c’entra Lenovo? Attualmente l’azienda cinese è attiva nel segmento smartphone con i suoi Lenovo Legion, gaming-phone che difficilmente vediamo nei mercati europei.

Ebbene stando a quanto trapelato recentemente online, l’idea di un ThinkPhone non è poi così remota. Sì, avete capito bene: uno smartphone Lenovo analogo alla linea ThinkPad che da decenni riscuote successo nel settore dei notebook.

I rumor emersi in rete riguardano un dispositivo, apparantemente in fase di sviluppo da parte di Motorola identificato dal nome in codice Bronco. Questo dispositivo però è accompagnato da un’immagine, che trovate proprio qui sotto, che rivela un chiaro riferito alla gamma ThinkPhone.

Tale gamma ThinkPhone attualmente non esiste, quindi Bronco potrebbe farle da apripista. Attualmente sappiamo che questo dispositivo dovrebbe essere di gamma alta: processore Snapdragon 8+ Gen 1, display full HD+, 8 GB o 12 GB di RAM, sensori principali delle fotocamera da 50 megapixel, accompagnati da grandangolari e macro.

Il filo diretto con la serie ThinkPad dovrebbe poi essere segno di affidabilità oltre che riscuotere un certo fascino verso gli appassionati del settore.

Al momento è presto per giungere a conclusioni. Lenovo non ha dato segni ufficiali in merito allo sviluppo di un ThinkPhone. Potrebbe dunque trattarsi di un nuovo modello di Motorola, che magari verrà lanciato nell’ambito della serie Edge 40. Torneremo ad aggiornarvi appena ne sapremo di più.

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Un Lenovo ThinkPhone è un’idea così folle?

Recensione RedMagic 7S Pro: bastava così poco, ma il prezzo sale

Se nella nostra videorecensione troverete tutti i dettagli su questo Redmagic 7S Pro in questa recensione testuale ci concentreremo sulle differenze fra questo modello e il precedente e sulle conclusioni. Vi invitiamo quindi a leggere per intero la recensione di Redmagic 7 Pro se siete interessati a questo modello.

Dal punto di vista estetico le differenze sono praticamente inesistenti: i due smartphone sono infatti praticamente identici e le differenze sostanziali infatti sono sotto al cofano. Benché possa sembrare una differenza minima questo Redmagic 7S Pro monta all’interno un processore Snapdragon 8+ Gen 1. Quel plus in più rispetto al modello precedente fa “tutta la differenza del mondo”. Come già ampiamente testato anche su altri dispositivi questo nuovo processore Qualcomm garantisce prestazioni migliori con minori consumi e un minor surriscaldamento. In poche parole: è meglio ottimizzato.

Il riscontro principale lo si trova nelle prestazioni, che sono davvero impressionanti. Redmagic 7S Pro riesce a mentenere la potenza sempre sopra l’80% delle sue capacità anche oltre la mezz’ora di utilizzo prolungato sotto il massimo degli sforzi. Sono pochi i dispositivi capaci di garantire prestazioni simili, senza diventare incandescente. Ovviamente Redmagic 7S Pro si scalda, ma il sistema ICE 10.0 di Redmagic riesce a tenere questo calore a bada dissipandolo rapidamente e in modo efficace. Questo è possibile anche grazie alla sua ventola fisica, che può girare fino a 20.000 RPM, e ai suoi vari strati di materiali atti proprio al dissipamento termico.

Oltre al processore e al nuovo sistema di raffreddamento l’unica vera altra novità di questo smartphone è la possibilità di acquistarlo anche nell’assurdo taglio con 18 GB di RAM LPDDR5 (e 512 GB di memoria interna UFS 3.1). Noi abbiamo però provato la versione “base” da 12 GB di RAM e 256 GB di memoria interna.

Facciamo anche un rapido ripasso delle altre funzionalità principali dello smartphone:

  • Connettività 5G / Wi-Fi 6E / Bluetooth 5.2
  • Uscita video USB-C
  • Jack audio da 3,5 millimetri
  • LED RGB sul retro
  • Display da 6,8″ FHD+ AMOLED a 120 Hz
  • Touch sampling record a 960 Hz
  • Fotocamere: 64 megapixel / 8 megapixel grandangolare / 2 megapixel macro
  • Fotocamera sotto al display da 16 megapixel
  • Audio stereo / DTS Ultra X
  • Batteria da 5.000 mAh
  • Ricarica rapida a 65W

Non cambiano quindi le caratteristiche distintive del precedente modello, come la ricarica rapida (seppur non rapida come il modello asiatico), la batteria capiente, la presenza di jack audio e i trigger ultrasonici sul dorso, configurabili a piacere all’interno dei giochi.

Benché Redmagic non sia poi famosa per il numero di aggiornamenti, abbiamo constatato con piacere che questo smartphone dotato di Android 12 abbia ricevuto ben due aggiornamenti durante la nostra prova. Al momento le patch di sicurezza sono ferme a giugno 2022. Non ci sono particolari novità nel software, che mantiene purtroppo ancora una volta le cattive traduzioni in alcuni menù.

Redmagic 7S Pro migliora in modo netto, nonostante le pochissime differenze. Cresce però anche il prezzo e questo sicuramente non fa bene alla sua appetibilità. Ci vogliono 779€ per la versione 12/256 e ben 949€ per quella 18/512. Considerando che Redmagic è sempre stato il brand più appetibile per chi cercava un ottimo rapporto qualità prezzo, sono cifre decisamente alte.

Lo trovate anche su Amazon, ma a prezzo ancora più alto.

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Recensione RedMagic 7S Pro: bastava così poco, ma il prezzo sale

Così Amazon vuole occuparsi anche della nostra salute mentale

AGI – C’è anche la salute mentale nelle mire di Amazon. Dopo l’accordo per acquistare iRobot, il robot aspirapolvere Roomba, che pulisce casa e genera mappe delle planimetrie delle abitazioni, la multinazionale di Jeff Bezos, secondo quanto riportato da Business Insider (la società non ha fatto alcuna comunicazione in merito), ha stretto una partnership con Ginger, servizio che offre consulenze online in questo settore.

La società progetta di aggiungere il supporto alla salute mentale ad Amazon Care, il suo programma di assistenza sanitaria da remoto, dedicato alla cura della persona, che vuole offrire interventi a distanza di professionisti, tra cui medici, e ora grazie all’accordo con Ginger, anche psicologi e psichiatri. Il servizio dovrebbe essere lanciato l’anno prossimo. 

Amazon Care è stato lanciato per la prima volta nel 2019 come servizio di assistenza da remoto e non per i dipendenti Amazon a Seattle. Ora è disponibile per le aziende statunitensi dei 50 stati che desiderano offrire il servizio ai propri dipendenti. La partnership con Ginger è solo l’ultimo passo di Amazon nel settore dell’assistenza sanitaria.

La Big Tech ha lanciato la propria farmacia nel 2020 e dispone di programmi che integrano Alexa negli ospedali. Nel luglio di quest’anno, Amazon poi ha annunciato l’acquisizione della società di cure primarie One Medical per 3,9 miliardi di dollari.

Ginger è una piattaforma digitale per la salute mentale che offre alle persone l’accesso 24 ore su 24, 7 giorni su 7 a coach e terapisti e in pratica sarà una sorta di componente aggiuntivo opzionale per le aziende che utilizzano Amazon Care. “Le informazioni sulla salute sono condivise tra Amazon Care e Ginger”, si legge sulla pagina dedicata sul sito di Amazon Care.

I fornitori di cure primarie sulla piattaforma possono rispondere ad alcuni problemi di poco conto, come una lieve ansia. Per problemi più gravi, si fa sapere, i pazienti sono indirizzati a fornitori esterni ad Amazon Care. 


Così Amazon vuole occuparsi anche della nostra salute mentale

I Pixel Buds Pro potevano essere molto più colorati di così

Sono passati solo pochi giorni dal debutto ufficiale di Pixel Buds Pro sul mercato, compreso quello italiano. E ora apprendiamo nuovi dettagli sulle nuove true wireless di casa Google.

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Nelle ultime ore sono trapelate online interessanti informazioni su come sarebbero potute essere le Pixel Buds Pro di Google, soprattutto in termini di alternative di colorazioni.

I nuovi dettagli che abbiamo citato arrivano da 9to5Google, che ha svolto il teardown dell’apk relativo all’ultima versione dell’app Pixel Buds, la companion app che Google rende disponibile su smartphone per gestire le sue cuffie true wireless. Sembra infatti che Google avesse in mente una varietà più ampia di colorazioni.

Le Pixel Buds Pro che sono arrivate sul mercato sono ufficialmente disponibili nelle colorazioni Coral (salmone/arancione), Fog (azzurro con sfumature grigie), Charcoal (grigio più chiaro) e Lemongrass (giallo chiaro/verde). Nell’apk sono stati trovati riferimenti a colorazioni mai finalizzate per le Buds Pro. Ecco quali:

  • Standard Black.
  • Procelain, che sarebbe dovuta corrispondere ad una particolare sfumatura di bianco.
  • Clear, che sarebbe dovuta corrispondere ad un’altra sfumatura di bianco.
  • Approx grey, dunque una sfumatura di grigio.

È molto plausibile che Google non ha mai avuto in mente di lanciare sul mercato tutte queste colorazioni di Pixel Buds Pro, oltre a quelle che sono effettivamente arrivate. Probabilmente Google ha fatto una cernita tra quelle inizialmente ipotizzate.

Vi ricordiamo che le nuove Buds Pro sono ufficialmente disponibili nel mercato italiano al prezzo di 219€, anche su Amazon. Per maggiori dettagli vi suggeriamo di leggere le nostre prime impressioni sulle true wireless, ne abbiamo parlato qui.

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I Pixel Buds Pro potevano essere molto più colorati di così

Perché lavoriamo così duramente prima delle vacanze?

AGI – L’ultimo periodo prima delle vacanze? È in genere il più faticoso. Una corsa affannosa a chiudere tutto, progetti, incombenze, lavori, conti, come se il primo giorno del mese d’agosto segnasse uno spartiacque con la fine del mondo. Sarà, fors’anche, perché ad agosto il paese si ferma del tutto. Chiudono le fabbriche, i negozi, le città si svuotano, le attività si paralizzano e ci vogliamo far trovare preparati con quest’appuntamento.

Ma gli ultimi giorni prima della pausa estiva lavoriamo come non mai prima. Sembriamo come matti e in preda all’ansia. Tant’è che ci vuole giusto “una vacanza per riprendersi”, annota la rivista americana “The Atlantic”, perché “le persone possono lavorare così intensamente nel periodo che precede l’essere offline” che hanno bisogno giustappunto di una interruzione per ritemprarsi. E forse neanche quella basta all’inizio, tanto siamo scossi per almeno tutta la prima settimana d’inedia.

“Il tempo libero è un tesoro, ma le persone spesso devono lavorare quasi il doppio per prepararsi”, osserva il settimanale. Ma è un vero e proprio gioco dell’assurdo, perché “il periodo pre-vacanze non deve svolgersi in questo modo”, non dovremmo arrivarci estenuati.

E però, si ha quasi la sensazione che si “stia facendo qualcosa di cattivo andando in vacanza” perché non si contribuisce al progredire del lavoro, ciò che fa sì che “questo senso di colpa può portare i turisti in vacanza a lavorare molto duramente prima del tempo libero, nella speranza di contrastare un calo di produttività mentre sono fuori casa e limitare la quantità di lavoro che i loro colleghi dovrebbero raccogliere in loro assenza”, chiosa “The Atlantic”.

Così, se negli anni ’50 e ’60 fare due mesi di vacanza filata, luglio al mare e agosto ai monti, era un vero e proprio segno distintivo, di benessere e anche di classe, quindi un status di cui farsene un vanto, oggi la famiglia che si prende una vacanza di due settimane viene additata quasi al pubblico ludibrio perché si ritiene sia persino troppo lunga. S’è quasi capovolta la situazione: viene guardato con ammirazione e segno di rispetto chi resta in città inchiodato alla scrivania. Un segno di serietà, competenza, responsabilità e – perché no? – di successo.

Però il servizio di “The Atlantic” osserva che non è così dappertutto. Lo è soprattutto in America, meno in Europa ad esempio: la reazione di disagio nella corsa a prepararsi a chiudere tutto per poi andare in vacanza o il senso di disapprovazione verso chi si prende una vacanza, breve o lunga che sia, sarebbe insolita in gran parte del Vecchio Continente.

Mentalità a confronto tra Usa ed Europa

Secondo la professoressa Jennifer Petriglieri, che insegna Comportamento organizzativo presso la Business School francese INSEAD, interrogata da “The Atlantic”, osserva che nella cultura del lavoro di alcuni paesi, come Francia e Italia, la settimana prima di una vacanza in genere non è molto più stressante di qualsiasi altro momento dell’anno: “Questa reazione sarebbe insolita in gran parte dell’Europa”, ha detto Petriglieri.

Ma c’è anche un altro aspetto o un’altra lettura, secondo il settimanale americano, di questo fenomeno d’ansia pre-vacanze: “Parte della pressione che porta a una crisi dell’ultimo minuto potrebbe derivare dal desiderio di non lasciare i compiti incompiuti”, tant’è che secondo Laura Giurge, professoressa di Scienze comportamentali alla London School of Economics, “molti lavoratori sentono di dover eliminare l’intera lista di cose da fare per staccare completamente la spina dal lavoro e godersi le vacanze” più in tranquillità e in pace con se stessi. La sindrome avrebbe un nome: “Corsa alla scadenza”.

Il risultato, pertanto, sarebbe che “un carico di lavoro più pesante può smorzare la felicità delle persone durante il periodo che precede una vacanza”, come rilevato da alcune ricerche sul tempo libero e sul benessere. Tuttavia, questo non è un buon “modo di vivere o lavorare”, ma per Petriglieri il problema è soprattutto culturale, anche se cambiare la cultura di un’azienda è più gestibile che cambiare quella di un’intera società.

Quanto alle differenze culturali in tema di lavoro e vacanze, tra Stati Uniti ed Europa, resta questa considerazione della professoressa Giurge, che tira le somme: “Sicuramente parte di questo impulso completista” a chiudere tutto prima del relax “è sintomatico di una cultura che dice che le persone devono prima lavorare per poi ‘meritarsi’ lo svago”. Ma c’è anche, in parte, un risvolto psicologico, secondo il quale avere compiti non completamente ultimati può essere “mentalmente scomodo”.

Ciò che finisce per “scatenare una tensione interiore, derivante dal bisogno di chiusura”. Fenomeno che è anche in gran parte “un sottoprodotto della prepotente cultura americana della produttività”, sottolinea “The Atlantic”. Ciò che marca la differenza con un Europa più rilassata e meno stressata. Anche se alla fine si tratta di una corsa solo per l’ultimo miglio…

 

 


Perché lavoriamo così duramente prima delle vacanze?

Il mercato degli smartphone non andava così male da quasi dieci anni

AGI – Con 49 milioni di smartphone spediti in Europa, il mercato degli smartphone del vecchio continente è calato del 12% nel primo trimestre di quest’anno, registrando le spedizioni più basse del periodo da quasi un decennio. Il numero più basso dal primo trimestre 2013. È quanto emerge da un rapporto di Counterpoint Research. 

Secondo la società di ricerca il calo è frutto della carenza di componenti, dei blocchi legati al COVID-19 in Cina, del deterioramento delle condizioni economiche e dell’inizio della guerra Russia-Ucraina.  

In particolare Samsung, che resta al vertice del mercato con una quota del 35%, ha registrato un calo delle spedizioni del 16%.  Apple cala del 6% e resta il secondo produttore in Europa con il 25% del mercato. Realme è stato l’unico tra i primi cinque fornitori a registrare una crescita annuale delle spedizioni. Giù Xiaomi, che ha registrato -36% di crescita annua e una quota di mercato che passa dal 19 al 14%.

“L’aumento dei livelli di inflazione in Europa sta incidendo sulla spesa dei consumatori, mentre Samsung e Apple, il primo e il terzo fornitore di smartphone in Russia, hanno interrotto tutte le spedizioni nel mercato più grande d’Europa all’inizio di marzo 2022″ ha dichiarato Jan Stryjak, di Counterpoint Research. La società di ricerca prevede che la crescita annuale delle spedizioni di smartphone in Europa continuerà a diminuire per i prossimi trimestri, soprattutto nel secondo. 


Il mercato degli smartphone non andava così male da quasi dieci anni

Tonfo del mercato degli smartphone in Europa: mai così male negli ultimi 9 anni

Il mercato degli smartphone in Europa sta vivendo uno dei periodo di crisi più grandi dagli ultimi nove anni: secondo quanto emerge da un recente report di Counterpoint Research, rispetto al primo trimestre del 2021, il numero di unità spedite nel Vecchio Continente è calato di ben il 12%.

L’azienda più colpita è stata Xiaomi, con un calo del 36% nelle spedizioni rispetto a quanto fatto nel primo trimestre del 2021. In calo anche i dati relativi a Samsung e Apple che, nonostante i nuovi prodotti presentati nel 2022, non sono riuscite a invertire il trend (calo rispettivamente del 16% e del 6%). Stessa sorte infine per OPPO (che include anche i dati di vendita di OnePlus), con un calo dell’8%. La vera sorpresa è però Realme: il brand cinese è l’unico dei produttori “importanti” a registrare una crescita nel numero di unità spedite (ben il 67% in più rispetto al Q1 2021).

I motivi di questo enorme calo nelle unità spedite riguardano sicuramente la costante crisi dei semiconduttori, che rende estremamente complicato per le aziende produrre effettivamente i dispositivi, e i nuovi lockdown in Cina, che hanno costretto tantissime persone a rimanere a casa. In ultimo, troviamo sicuramente la guerra in Ucraina, che di certo non ha aiutato il mercato a crescere in questi mesi.

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Tonfo del mercato degli smartphone in Europa: mai così male negli ultimi 9 anni

Vivo S15 e S15 Pro ufficiali: così promettenti da volerli vedere in Italia

Vivo si conferma molto attiva nel settore di mercato degli smartphone e lancia ufficialmente in Cina i nuovi Vivo S15 e S15 Pro. Si tratta di due device di gamma alta, con una scheda tecnica che punta molto sull’aspetto fotografico. Andiamo a vedere insieme le specifiche tecniche complete.

  • Display: 6,56″ (2.376 × 1.080 pixel) Full HD+ E5 AMOLED 19.8:9, HDR10+, 120Hz refresh rate, 300Hz touch sampling rate, fino a 1500 nits
  • Processore: MediaTek Dimensity 8100 5nm
  • GPU: Mali-G610 6-core 
  • RAM: 8GB / 12GB LPDDR5
  • Storage interno: 256GB (UFS 3.1) 
  • Sistema operativo: Android 12 con Origin OS Ocean
  • Reti: Dual SIM (nano + nano)
  • Fotocamera posteriore:
    • Principale: 50 megapixel con sensore IMX766V, f/1.88 aperture, OIS, LED flash
    • Grandangolo: 12 megapixel 119°, f/2.2 aperture con opzione macro a 2,5cm
    • B&W :2 megapixel. f/2.4 aperture
  • Fotocamera anteriore: 32’megapixel autofocus, f/2.45 aperture
  • Sicurezza:  sensore d’impronte digitali nel display 
  • Audio: USB Type-C audio, Stereo Speakers, Hi-Res audio
  • Dimensioni: 158,9 × 73,52 × 8,55mm
  • Peso: :188g
  • Connettività: 5G SA/NSA, Dual 4G VoLTE, Wi-Fi 6 802.11 ac (2.4GHz + 5GHz), Bluetooth 5.3,GPS (L1 + L5), USB Type-C, NFC
  • Batteria: 4.500mAh com ricarica rapida a 80W
  • Display: 6,62″ (2.400 × 1.080 pixel) Full HD+ E4 AMOLED 20:9, HDR10+, 120Hz refresh rate, 300Hz touch sampling rate, fino a 1300 nits
  • Processore: Octa Core (1 x 3.2GHz + 3 x 2.42GHz + 4 x 1.8GHz Hexa) Snapdragon 870 7nm
  • GPU: Adreno 650 
  • RAM: 8GB/ 12GB LPDDR4X
  • Storage interno: 128GB / 256GB (UFS 3.1)
  • Sistema operativo: Android 12 con Origin OS Ocean
  • Reti: Dual SIM (nano + nano)
  • Fotocamera posteriore:
    • Principale: 64 megapixel, f/1.89 aperture, OIS, LED flash
    • Grandangolo: 8 megapixel, f/2.2 aperture
    • Macro: 2 megapixel, f/2.4 aperture
  • Fotocamera anteriore: 32 megapixel, f/2.0 aperture
  • Sicurezza: sensore d’impronte digitali nel display 
  • Audio: USB Type-C audio, Stereo Speakers, Hi-Res audio
  • Dimensioni:161,09 × 74,31 × 8,08mm
  • Peso: 198g
  • Connettività: 5G SA/NSA, Dual 4G VoLTE, Wi-Fi 6 802.11 ac (2.4GHz + 5GHz), Bluetooth 5.2,GPS (L1 + L5), USB Type-C, NFC
  • Batteria: 4.500mAh con ricarica rapida a 66W

I due nuovi dispositivi di Vivo sono stati annunciati esclusivamente per il mercato cinese al momento. Vivo S15 Pro arriva nelle colorazioni Black e Blue ad un prezzo che parte dall’equivalente di circa 450€.

Vivo S15 arriva nelle colorazioni Black, Blue e Golden ad un prezzo che parte dall’equivalente di 290€. Speriamo di vederli presto anche in Italia.

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Vivo S15 e S15 Pro ufficiali: così promettenti da volerli vedere in Italia

Così i social hanno distrutto la democrazia negli Usa

AGI – Gli americani vivono “in un Paese pieno di fratture e divisioni” e sono “disorientati, incapaci di parlare la stessa lingua o di riconoscere la stessa verità”. E gran parte della colpa è di alcuni social network che, disattendendo le promesse di una maggiore connettività, “hanno tagliato fuori le persone le une dalle altre”. È la tesi esposta da Jonathan Haidt, psicologo sociale alla New York University Stern School of Business, in un lungo articolo su The Atlantic dal titolo inequivocabile: “Perché gli ultimi dieci anni di vita americana sono stati straordinariamente stupidi”.

Haidt paragona la storia recente degli Stati Uniti alla Torre di Babele, dalla sua costruzione, piena di aspettative, alla sua fragorosa caduta. Un’analisi che si inserisce in un contesto in cui tutto sta cambiando nell’universo digitale: dal Metaverso di Zuckerberg al successo di TikTok e Instagram, arrivando ai tentacoli che Elon Musk vorrebbe stringere intorno a Twitter

Lo studioso individua nel 2011, un anno iniziato con la Primavera Araba, caratterizzato dalla diffusione di Google Translate e terminato con il movimento globale ‘Occupy’, il momento in cui la ‘Torre’ dei social è stata eretta. “Siamo stati molto vicini, più di quanto non lo fossimo mai stati, a essere ‘un unico popolo’ e per gli ‘ottimisti tecno-democratici’, sembrava essere il punto d’avvio di ciò che l’umanità avrebbe potuto costruire lavorando insieme”.

Dal 2012 in poi, Mark Zuckerberg e gli altri guru dei social sono riusciti a mantenere la loro promessa di “ricablare il mondo” soprattutto per quanto riguarda “i modi in cui le persone diffondono e consumano le informazioni“. Ma non tutto è filato liscio: a subire le trasformazioni più profonde sono state “le nostre istituzioni” e “il modo di fare politica”.

Ma come hanno fatto?

Per il sociologo americano queste piattaforme hanno indebolito i tre elementi principali che, legati insieme, rafforzano le democrazie: le reti sociali capaci di esprimere una grande dose di fiducia e ottimismo, le istituzioni forti e la capacità di condividere storie. 

Gli iscritti ai principali social si sono dimenticati presto della possibilità di recuperare e coltivare contatti personali trovandosi a proprio agio nel condividere dettagli intimi e fatti personali con estranei e aziende. “Una volta che le piattaforme hanno addestrato gli utenti a dedicare più tempo all’esibizione e meno alla connessione, si è preparato il terreno per la grande trasformazione: l’intensificazione delle cosiddette dinamiche virali”.

Prima la comparsa dei ‘mi piace’, poi quella dei ‘retweet’ e dei ‘condividi’, seguite dai perfezionamenti degli algoritmi e dei processi con cui premiare chi era capace di ottenere più visibilità e consenso, anche tramite pratiche aggressive e disoneste. Un meccanismo che ha stravolto anche il modo di fare politica, di comunicazione delle istituzioni, di interazioni tra il semplice cittadino e gli enti pubblici.

I social media hanno sia amplificato che armato il frivolo”, sottolinea Haidt, spiegando come le persone “vivano sempre più nelle loro bolle” in un clima per lo più ostile dove “si urlano contro”. E il passaggio alla “rottura dei rapporti di fiducia” è stato breve.

E quando “i cittadini perdono fiducia nei leader eletti, nelle autorità sanitarie, nei tribunali, nella polizia, nelle università e nell’integrità delle elezioni” allora “ogni decisione viene contestata e ogni elezione diventa una lotta all’ultimo sangue per salvare il Paese”. Il risultato non è banale perché “quando le persone perdono fiducia nelle istituzioni, perdono fiducia nelle storie raccontate da quelle istituzioni“.

La ‘Torre’, insomma, ha fatto presto a crollare su stessa. I social network hanno armato i cittadini “con pistole a salve” o “con dardi avvelenati” dando spazio a troll e provocatori e mettendo a tacere i cittadini più moderati. Oltre a ciò, si è rilevato che a ritagliarsi più spazio in questi luoghi siano stati quasi sempre i cosiddetti “estremisti e populisti” a scapito di “una maggioranza più moderata” e riflessiva. E non è una questione di appartenenza politica: è un discorso che riguarda tanto l’America “blu” quanto quella “rossa”.

Un quadro che da preoccupante diventa tragico se si considera, infine, che queste pistole a salve hanno delegato gli utenti “ad amministrare la giustizia autonomamente” senza più considerare o aspettare l’evolversi di “un giusto processo”.

Le cose, secondo il sociologo, potrebbero anche peggiorare con l’avvento e la diffusione dell’intelligenza artificiale perché questa tecnologia “è ormai vicina a consentire la diffusione illimitata di una disinformazione altamente credibile”. Una minaccia che viene anche dall’esterno e che coinvolge grandi potenze come la Russia e la Cina.

Come fare allora per raddrizzare la barra?

Per Haidt “non potremo mai tornare a come erano le cose nell’era pre-digitale” ma è necessario che “tre obiettivi debbano essere raggiunti se la democrazia vuole rimanere praticabile nell’era post-Babele”. Il primo passo è quello di rafforzare le istituzioni democratiche “in modo che possano resistere alla rabbia cronica e alla sfiducia”.

In secondo luogo bisogna “riformare i social media in modo che diventino meno corrosivi per la società”. E infine è necessario “preparare meglio la prossima generazione alla cittadinanza democratica” tenendo conto delle caratteristiche del mondo in cui viviamo.

Ma come si modificano i social?

 Le riforme, spiega Haidt, “dovrebbero portare a limitare l’amplificazione oggi permessa alle frange più aggressive” dando più voce “a quella che viene chiamata ‘la maggioranza esausta’”. Per il sociologo “il problema principale con i social media non è che alcune persone pubblicano materiale falso o tossico” ma che “i contenuti falsi e pieni d’indignazione o rabbia possano raggiungere un cospicuo numero di persone e avere un’influenza che non era possibile prima del 2009”. 

I ragazzi della Generazione Z – quelli nati dal 1997 in poi – “non hanno alcuna colpa per il pasticcio in cui ci troviamo, ma lo erediteranno, e i segni preliminari sono che le generazioni più anziane hanno impedito loro di imparare a occuparsene”. Ma è da loro, che stanno abbandonando Facebook e Twitter per realtà come TikTok o Instagram, che il cambiamento può arrivare. Ed è necessario che avvenga perché, sostiene lo studioso, “se non apportiamo presto grandi cambiamenti, le nostre istituzioni, il nostro sistema politico e la nostra società potrebbero crollare”.

 


Così i social hanno distrutto la democrazia negli Usa