Così il Google Feed risponde alle nostre scelte e ricerche

AGI – I maggiori fattori di coinvolgimento con le notizie inaffidabili fornite dal Google Feed sembrano dipendere principalmente dalle selezioni precedenti piuttosto che dall’attenzione dell’algoritmo o dall’ideologia politica dell’utente. Lo rivela uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati della Rutgers School of Communication and Information, dell’Università di Stanford e della Northeastern University.

Nonostante il ruolo cruciale che gli algoritmi svolgono nella selezione di notizie proposte all’utente, poche ricerche si sono concentrate sull’analisi dei metodi di assortimento del Feed. Il team, guidato da Katherine Ognyanova, ha confrontato l’esposizione, ovvero l’insieme di link presenti nei risultati di ricerca, i follow, collegati alle pagine che le persone scelgono di visitare, e il coinvolgimento, cioè l’insieme di siti visitati da un utente durante la navigazione.

I ricercatori hanno affrontato la preoccupazione di lunga data secondo cui gli algoritmi digitali apprendano dalle preferenze espresse in base alle cronologie e dalle informazioni superficiali per soddisfare gli atteggiamenti e i pregiudizi degli utenti stessi. I risultati del feed, sostengono gli esperti, sembrano differire di poco in base alle ideologie politiche di base, ma si distanziano quando le persone iniziano a visitare determinate pagine web.

Questo lavoro, commentano gli studiosi, evidenzia che a volte gli algoritmi di Google possono generare risultati polarizzanti e potenzialmente pericolosi, anche se questi emergono in modo uniforme tra gli utenti con opinioni politiche diverse. Il gruppo di ricerca ha raccolto informazioni in due ondate, valutando i risultati di un sondaggio con i dati empirici provenienti da un’estensione del browser progettata per misurare esposizione e coinvolgimento in relazione a determinati contenuti online durante le elezioni statunitensi del 2018 e del 2020.

Nell’ambito dell’indagine, 1.021 partecipanti hanno installato un’estensione del browser per Chrome e Firefox. Il software ha registrato gli URL dei risultati di ricerca di Google, la cronologia e una serie di dati relativi ai contenuti visionati dagli utenti. Il sondaggio era invece volto a distinguere l’orientamento politico dei soggetti. I risultati hanno mostrato che l’identificazione e l’ideologia politiche non erano correlate all’esposizione e alla qualità di notizie a cui gli utenti erano esposti.

Al contrario, sembrava emergere un chiaro legame tra l’identificazione politica e l’interazione con contenuti polarizzanti. “I motori di ricerca – commenta Ognyanova – tendono a mostrare alle persone contenuti inaffidabili, ma il nostro lavoro sottolinea che gli utenti stessi e le scelte compiute nel tempo possono influenzare direttamente la tipologia di link che vengono proposti nel proprio Feed”. 


Così il Google Feed risponde alle nostre scelte e ricerche

Il mercato dei giochi è letteralmente nelle nostre mani: i dispositivi mobili dominano

Sono ormai finiti i tempi dell’Atari e del Commodore, con comode partite sul divano di casa, ora iPhone e Android hanno rivoluzionato il volto dell’elettronica di consumo e dei giochi. Con oltre 6 miliardi di persone in possesso di uno smartphone, non sorprende che i giochi da dispositivo mobile rappresentino oltre il 52% del mercato, con un fatturato di oltre 90 miliardi di dollari nel solo 2021.

Questi numeri provengono da un rapporto pubblicato da Newzoo, società di analisi dell’industria dei giochi. Il rapporto evidenzia che non solo il mercato dei giochi da dispositivo mobile ora è più grande di console e PC messi insieme, ma è anche il segmento di mercato in più rapida crescita.

E mentre il mercato di PC e console continua a contrarsi man mano che le restrizioni e i blocchi sul posto di lavoro vengono allentati, le entrate complessive del settore sono in aumento, quindi vuol dire che è il mercado dei giochi da dispositivi mobili a spingere la crescita.

Questo cambiamento si può spiegare con due motivi. Il primo è la quasi ubiquità di Android, che rende facile per gli sviluppatori di creare giochi per molti telefoni diversi, con iOS l’unico altro vero contendente, il secondo è che la pandemia globale ha imposto restrizioni ai grandi team di sviluppatori necessari per realizzare titoli AAA per società del calibro di Microsoft e Sony.

La parte del leone di un fatturato di 90 miliardi di dollari è venuto dall’Asia Pacifica, con la Cina che rappresenta oltre 30 miliardi di dollari di entrate (rispetto ai 15 miliardi dagli Stati Uniti). E non tutto è da attribuire esclusivamente alla sua vasta popolazione: società cinesi come Tencent e Mihoyo hanno realizzato entrate per 18 miliardi di dollari dall’estero lo scorso anno.

Vale anche la pena ricordare che la crescita più rapida proviene dalle economie emergenti di America Latina, Africa e Medio Oriente, e questo ritmo non sembra intenzionato a calare. C’è da considerare inoltre che grazie alle previsioni astronomiche di crescita di diffusione degli smartphone (si prevede che supereranno i 7 miliardi entro il 2024) e alla diffusione di reti ad alta velocità in tutto il mondo, il mercato dei giochi da dispositivi mobili non può altro che aumentare. E voi? vi riconoscete in questa analisi?

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Il mercato dei giochi è letteralmente nelle nostre mani: i dispositivi mobili dominano

L’obiettivo di Youtube per il 2022 è conquistare i salotti delle nostre case

AGI – Adesso Youtube vuole conquistare il salotto di casa. Guardando a qualche anno fa, la piattaforma di Google è stata la prima a scalfire la centralità del televisore. Prima dello streaming, prima che i social network diventassero da guardare e non solo da leggere.

Adesso è lì che Youtube vuole tornare, come ha scritto la ceo Susan Wojcicki nella lettera con cui traccia le priorità del 2022: “Lo schermo televisivo è quello su cui abbiamo riscontrato la crescita maggiore nel 2021. Stiamo esplorando nuovi modi per portare il meglio di YouTube sullo schermo tv e aiutare le persone a interagire in maniera ancora più semplice con i video”. Merito dei televisori connessi, che hanno portato Internet dove prima c’erano solo le emittenti tradizionali.

Se Youtube diventa la nuova enciclopedia

L’altro settore in crescita è l’apprendimento. “Le persone – scrive Wojcicki – si rivolgono a YouTube ogni giorno per imparare, che si tratti di avere un aiuto per fare i compiti, approfondire nuovi interessi o sviluppare competenze per iniziare una nuova carriera”. Lo strumento è digitale, ma ha poco o nulla a che fare con la Dad. Youtube sta diventando una fonte per approfondire le materie di studio. La società sta quindi cercando di favorire (e sfruttare) questo flusso creando “contenuti educativi”, come quelli dei canali Mi Aula (lanciato in Messico e Argentina) e Youtube Edu. La piattaforma punta a “raddoppiare il numero di persone che interagiscono con i contenuti educativi su YouTube”.

Obiettivo bufale allo 0,5%

Per crescere su educazione e istruzione, è necessario proseguire la lotta alla disinformazione. Youtube è stato spesso criticato per aver bucato la rimozione di contenuti vietati e perché l’algoritmo tende a proporre video simili a quelli già visti, incoraggiando l’utente ad avvitarsi sulle sue convinzioni.

La piattaforma ha adottato diversi correttivi e investito sui sistemi di revisione. Nel terzo trimestre del 2021, le visualizzazioni provenienti da contenuti che violano le norme sono state tra le 9 e le 11 ogni 10 mila. Il tasso – ha affermato la ceo – è diminuito di oltre il 70% rispetto al 2017.

C’è però anche una battaglia più sfumata: ci sono video – come nel caso di teorie complottistiche e bufale – che non violano apertamente le linee guida di Youtube ma rappresentano comunque fonte di disinformazione. La piattaforma non può oscurarli ma può scoraggiarne la visione, penalizzandoli nelle ricerche e ostacolando la comparsa tra i video suggeriti. Per il 2022, l’obiettivo è “mantenere le visualizzazioni di questi contenuti ‘borderline’ al di sotto dello 0,5% delle visualizzazioni” complessive.

Occhi sugli Nft

Lo scorso anno, il numero di canali con un guadagno annuo superiore ai 10 mila dollari è aumentato del 40%. “Quando ho iniziato a lavorare per YouTube – scrive Wojcicki – c’era solo un modo per guadagnare sulla piattaforma: gli annunci pubblicitari. Ora i creator possono contarne dieci”. Abbonamenti, ripartizione del fatturato degli annunci, vendita di prodotti. Youtube ne sta cercando altri, come gli Nft: i certificati di autenticità di opere digitali “hanno messo in evidenza un’opportunità prima inimmaginabile”.

La difesa dei Non mi piace

Wojcicki spiega perché ha deciso di non visualizzare più il numero complessivo dei Non mi piace. Il tasto c’è ma non è affiancato dal conteggio dei clic. La novità è stata accolta in modo definito “controverso”. Alcuni utenti l’hanno criticata perché elimina un elemento che aiuterebbe a individuare un contenuto di qualità. “Tuttavia – replica la ceo – le persone mettono Non mi piace ai video per vari motivi, alcuni dei quali non hanno nulla a che vedere con il video stesso”. Non sono il frutto di un giudizio sulla qualità, ma spesso di “attacchi” e “molestie”, rivolti soprattutto “ai creator più piccoli e alle prime armi”. Il pollice verso, quindi, “non è una metrica accurata” per selezionare i contenuti da guardare. 

I numeri del 2021

La lettera della ceo è anche un concentrato di numeri. Quello più eclatante riguarda le visualizzazioni degli Shorts, il formato inferiore ai 60 secondi simil TikTok, lanciato nel 2020 e arrivato nel 2021 in Italia. Le visualizzazione hanno già raggiunto i 5 mila miliardi.

Il gioco si conferma uno dei settori trainanti, con 800 miliardi di visualizzazioni, oltre 90 milioni di ore di live streaming e oltre 250 milioni di upload solo nei primi sei mesi dello scorso anno. La piattaforma testerà soluzioni per “una migliore visibilità dei contenuti dal vivo e nuove funzionalità di chat”. Sono stati superati i 50 milioni di abbonati a YouTube Music e YouTube Premium e pagati 4 miliardi di dollari all’industria musicale in 12 mesi.


L’obiettivo di Youtube per il 2022 è conquistare i salotti delle nostre case

Ecco come funziona l’auto volante e perché non la vedremo mai sulle nostre strade

AGI – Quasi quarant’anni fa l’immaginazione di Ridley Scott faceva sfrecciare auto volanti nel cielo piovoso della Los Angeles di Blade Runner. Le vetture (senza ali) si alzavano agili in mezzo a strade affollate e trafficate e volavano tra i grattacieli per atterrare con altrettanta facilità ovunque fosse necessario.

Oggi l’auto volante è una realtà, ma è piuttosto lontana da quelle pilotate di Harrison Ford nel film. Innanzitutto perché ha le ali, ma soprattutto perché per decollare e atterrare ha bisogno di una pista. E difficilmente si può immaginare che possa avere un’intera porzione di autostrada per farlo con comodità.

Praticabilità a parte, AirCar è un ‘autoplano’ dotato di un motore BMW e funziona con il normale carburante disponibile in qualunque pompa di benzina. Il suo creatore, Stefan Klein, afferma che potrebbe volare per circa 1.000 km a un’altezza di 2.500 m e finora ha totalizzato 40 ore di volo.

Servono due minuti e 15 secondi per trasformarla da auto in aereo e quando non vola le ali si piegano lungo le fiancate. In volo, il veicolo raggiunge una velocità di crociera di 170 km/h. Può trasportare due persone, con un limite di peso combinato di 200 kg, ma a differenza dei prototipi di droni-taxi, non può decollare e atterrare verticalmente e richiede una pista.


Ecco come funziona l’auto volante e perché non la vedremo mai sulle nostre strade

La pandemia ha eso le nostre case più smart. Un affare da 5 miliardi di euro

AGI – Il modello dei servizi in abbonamento (anche noto come business in subscription) sta diventando sempre più popolare a livello internazionale: dal 2014 al 2019 è cresciuto dal 53% al 71% e la crisi causata da Covid-19 non ha fermato questa tendenza che sembra rappresentare il futuro del commercio e della personalizzazione dei servizi. 

La casa che diventa sempre più luogo di elezione e rifugio da attrezzare e personalizzare: al punto che, in Italia, il 25% delle persone afferma che, nel 2021 rispetto al 2019, frequenterà di più gli amici nella propria abitazione e il 36% dice che non potrà rinunciare ad avere un accesso Internet in casa, ma nemmeno al giardino (39%), delineando l’immagine di un luogo aperto agli altri, connesso e sempre più verde. 

E lo Smart Home che si impone come uno dei segmenti di mercato dell’Internet of Things più in crescita, con un incremento del 40% dal 2018 al 2019 e un valore di 530 milioni di euro.

Sono alcuni dei dati emersi nel corso della presentazione di Oppo Smart Studies, progetto lanciato da Oppo e curato da Francesco Morace, Presidente del Future Concept Lab, che ha l’obiettivo di individuare le tendenze che stanno interessando il rapporto tra uomo e tecnologia in un contesto come quello attuale, di cambiamento sociale e individuale, per indagare i molteplici modi in cui la tecnologia può migliorare la vita delle persone.

I nuovi modi di divertirsi

Dall’analisi è emersa anche la diffusione sempre più ampia di intrattenimento e approfondimento veicolato dalle tecnologie digitali più avanzate come realtà aumentata e virtuale e 5G: il 20% degli italiani prevede di aumentare la spesa in prodotti tecnologici nel 2021 e la crescita stimata del mercato digitale italiano tra il 2019 e il 2021 è di 5,4 miliardi di euro. 

​Il progetto si divide in tre blocchi di ricerca. Il primo, presentato oggi, è dedicato agli scenari e ai trend che influenzeranno gli usi e i consumi nei mesi a venire e a come tecnologia e smartphone saranno parte integrante di questi nuovi approcci alla vita reale e digitale. Il secondo, delineerà le tendenze emergenti legate al pubblico femminile. Il terzo capitolo, poi, individuerà gli elementi attitudinali, le esperienze già acquisite, le fonti conoscitive dell’intelligenza artificiale e dell’Internet delle cose e il loro contributo a migliorare la vita quotidiana.

“Comprendere e anticipare gli scenari odierni e futuri che stanno interessando la fase della nuova normalità è fondamentale per un innovatore all’avanguardia, che lavora quotidianamente per comprendere come implementare la propria tecnologia e i propri prodotti e servizi perché essi possano migliorare concretamente la vita delle persone e la società” ha sottolineato Li Ming, General Manager di OPPO AED Italia.  

“La metamorfosi avvenuta nel recente periodo – ha spiegato Francesco Morace – ha modificato anche il coinvolgimento delle persone nel consumo, con un deciso viraggio verso l’etica del prodotto e la ricerca di esperienze di eccellenza. L’affermazione del digitale durante la pandemia – ha aggiunto – non ha provocato un crescente isolamento dei soggetti sociali e dei consumatori, ma al contrario ha attivato un progressivo avvicinamento tra le persone, ridefinendo le regole stesse della prossimità che diventa anche tecnologica. È attraverso il nuovo valore della prossimità digitale che si rafforzano e si legittimano l’autenticità, la verità dei processi, la sostenibilità: i dispositivi digitali permettono di toccare con mano i benefici e le applicazioni di questi valori”.

Tutto ruota intorno allo smartphone

Dal primo blocco di ricerca sono emerse quattro tendenze, declinate attraverso la tecnologia e il ruolo dello smartphone. La prima, chiamata Deep Living, ha messo in evidenza come Il consumatore attuale avverta “la crescente esigenza di vivere esperienze sensoriali a 360 gradi che siano in grado di garantire la massima soddisfazione nel minor tempo possibile”. In questo contesto lo smartphone diventa il mezzo privilegiato per organizzare la propria esistenza e accedere a una molteplicità di servizi ed esperienze.

La seconda tendenza, la Virtuous Reality, si concentra sulla casa. L’evoluzione tecnologica qui ha introdotto soluzioni all’avanguardia per quanto riguarda elettrodomestici, oggetti e addirittura ambienti intelligenti. In questo contesto, caratterizzato dalla necessità di controllo lo smartphone diventa protagonista.

La ricerca ha messo in evidenza come cresce la diffusione degli oggetti smart nelle case: il 68% degli italiani ha sentito parlare almeno una volta di casa intelligente e il 40% possiede almeno un oggetto smart.
La terza tendenza, Extracting Sense, fa riferimento invece alla “alla diffusione sempre più ampia di intrattenimento ed approfondimento veicolato dalle tecnologie digitali più avanzate, anche in Italia”, dove lo smartphone, secondo lo studio, diventa elemento di “integrazione tra dimensione individuale e sociale”.

E poi l’ultima tendenza, la quarta, la Trust Chains (le catene della fiducia). L’affermazione dell’economia collaborativa ha ormai assunto innumerevoli espressioni, a partire dalla decisione di sempre più persone di condividere i propri beni, servizi, trasporti o altro. A tal proposito, le nuove tecnologie e l’Open Innovation possono contribuire alla produzione di valore sociale. Tra le grandi imprese italiane, nel 2019, sottolinea lo studio, il 73% ha avviato iniziative di Open Innovation e circa i due terzi hanno attivato collaborazioni con startup (35%) o hanno in programma di farlo (27%). Il 33% di esse ha già creato un Innovation Manager. In particolare, le principali azioni di Open Innovation sono collaborazioni con università (64%) e startup intelligence (49%). All’interno di questa tendenza lo smartphone diviene quindi il supporto per eccellenza per lo sviluppo dell’innovazione sulla scia del modello startup.

Agi

Che ne è delle nostre chat e dei nostri dati dopo che siamo morti?

“Sono definitivamente assente”. Trent’anni fa, in una scena de Le Comiche, Renato Pozzetto provava a vendere una bara con segreteria telefonica incorporata. Al di là dello humor nero, la questione è seria: tra social network e intelligenza artificiale, è sempre più probabile che la nostra voce ci sopravviva. Pezzi consistenti della nostra eredità, ormai, non si toccano più. Eppure, si continua a badare molto all’eredità di quadri e armadi e poco a quella dei nostri dati. Una cosa cui bisognerebbe pensare per tempo, visto che non si può ancora dire: “Ehi Siri, sono morto”.

Un account è per sempre?

Il post mortem è stato discusso durante il meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science. “C’è un difetto significativo di progettazione nel modo in cui stiamo affrontando il fenomeno dell’aldilà digitale, con implicazioni globali”, ha spiegato Faheem Hussain, professore della Arizona State University. Per Hussain, il cui intervento è stato riportato da Geekwire.com e Financial Times, si discute molto di sicurezza dei dati e privacy ma “nessuno vuole parlare della morte” e del destino delle nostre informazioni. Se qualcuno mettesse le mani su un profilo di un defunto, potrebbe esserci un eterno “falso me” che vive sui social network, che “accumula dati”, “fa colloqui di lavoro su LinkedIn” o “parla con i miei familiari”. Un “io” fasullo, che però “mi rende praticamente vivo”.

Il Dna tramandato ai posteri

C’è poi un altro aspetto del post mortem, per ora meno popolare ma altrettanto attuale. Sono sempre di più le società che erogano servizi basati sulla mappatura del corredo genetico, come 23andMe. “Raramente pensiamo al destino del nostro Dna dopo aver effettuato i test”, ha sottolineato Stephanie Malia Fullerton, professoressa di bioetica alla University of Washington School of Medicine. Oltre al tema immediato della privacy, ce n’è un altro che riguarda l’aldilà: “Le nostre informazioni genetiche possono essere mercificate e continuare a creare prodotti commerciali anche molto tempo dopo la nostra scomparsa”. Fullerton ha quindi chiesto più attenzione sul tema e regole più stringenti. O, tanto per cominciare, una maggiore capacità d’intervento da parte dei familiari, che dovrebbero poter scegliere il destino dei geni della persona scomparsa. Come, in parte, fanno con gli account alcune piattaforme digitali.

L’eredità di Facebook

Facebook è un social network molto popoloso e ormai piuttosto anziano. Ed è quindi naturale che cresca il numero degli utenti deceduti. Non è un caso se proprio a Menlo Park, ormai da tempo, hanno creato una delle procedure più complete per la gestione post mortem degli account. L’utente può scrivere una sorte di testamento. Può, ad esempio, scegliere di eliminare il profilo dopo la sua scomparsa, indicando questa precisa volontà nelle impostazioni.

Nonostante i progressi della tecnologia, non è ancora possibile segnalare la propria morte. Per cui la cancellazione scatterà “quando qualcuno ci comunicherà il tuo decesso”, spiega Facebook. Verranno quindi eliminati, “in modo definitivo”, “tutti i messaggi, le foto, i post, i commenti, le reazioni e le informazioni” presenti sulla piattaforma. Se invece un utente ambisce a far sopravvivere il proprio profilo a se stesso, può nominare un “contatto erede”. Cioè un altro iscritto responsabile della trasformazione in “account commemorativi”. Il profilo non comparirà più tra i suggerimenti di amicizia e accanto al nome comparirà la dicitura “in memoria di”. Ma per il resto non cambia molto: in base alle impostazioni sulla privacy, gli amici potranno continuare a commentare e condividere ricordi.

Post mortem online: istruzioni per l’uso

Instagram ha una procedura diversa. Un parente può chiedere la rimozione o la trasformazione in account commemorativo (ma servono i documenti che attestino la morte e il legame). Il profilo non comparirà più nella sezione esplora ma, a differenza di Facebook, l’account commemorativo non può essere aggiornato o modificato.

Twitter non fornisce a nessuno e per nessun motivo i dati per accedere all’account del caro estinto. Se ne può chiedere la rimozione, passando però dalle carte, come il certificato di morte.

Simili sono le procedura per la chiusura dell’account di LinkedIn e Google. Big G offre però anche un’altra possibilità: l’utente può configurare la sorte del proprio profilo. Mountain View dichiara la morte digitale se l’account resta inattivo per un certo periodo (con opzioni dai 3 ai 18 mesi). Una volta arrivati a scadenza, in base alle ultime volontà, l’account verrà eliminato oppure sarà contattato un altro utente, con il quale condividere alcuni contenuti.

Il profilo di Apple (con tutto quello che c’è dentro, dalle app ai film), “non è trasferibile”. Può solo essere eliminato, inviando i documenti che attestino il trapasso.

Un team si occuperà di vagliare le richieste di chiusura account per Amazon. La piattaforma di e-commerce, però, bada al sodo: nella pagina dedicata, poche righe dopo aver fatto le condoglianze, chiede di fornire “un indirizzo e-mail e l’ultimo acquisto effettuato” se “desideri che eventuali buoni regalo ti vengano trasferiti”. Un coupon a futura memoria.

Finché chatbot non ci separi

Non c’è solo la gestione della vita biologica nell’aldilà digitale. Alcune applicazioni dell’intelligenza artificiale ambiscono a sfumare il confine tra l’una e l’altro. Diverse società puntano a trasformare un timore (che i nostri dati ci sopravvivano) in una risorsa (ricreare interazioni realistiche anche dopo la morte). Funzionano un po’ come il software di “Be Right Back” (Torna da me), episodio di Black Mirror in cui una giovane donna interagisce con il compagno morto, ricostruito in chat grazie alla raccolta dei suoi dati online.

Eternime è una società statunitense che fa proprio questo. Gli utenti che si propongono mettono a disposizione quello (tanto) che si può sapere dalla loro attività online: foto, post, messaggi. Al momento del trapasso, Eternime impacchetta tutto e lo trasforma in un avatar con cui chattare. Secondo il fondatore Marius Ursache, “si muore tre volte”: “Quando non ci prendiamo cura di noi stessi, quando ci mettono nella tomba e quando il nostro nome è pronunciato per l’ultima volta”. L’obiettivo di Urache è evitare la terza. E se l’idea può sembrare inquietante, ci sono già 46580 persone che hanno deciso di provarci.

Ehi Alexa, riportalo in vita

HereAfter ha lo stesso obiettivo, ma ci mette di mezzo la voce e utilizza un altro strumento per la raccolta dei dati. La società registra (di persona) una sorta di audio diario. Chi decide di iscriversi racconta aneddoti, episodi del passato, consigli per il futuro, canzoni preferite. L’intelligenza artificiale li rimescola, creando un avatar da ascoltare tramite smart speaker. Basta scaricare un’app per interpellare la nonna defunta come fosse Alexa.

L’idea del co-fondatore James Vlahos è nata registrando la voce del padre, cui era stato diagnosticato un cancro. Da lì è nato “Dadbot”, un software installato sullo smartphone che interagiva con il figlio. “In questo modo ho sempre mio padre in tasca”, ha detto Vlahos. Anche l’idea di Replika è nata da un addio. La co-fondatrice Eugenia Kuyda aveva creato un chatbot partendo da migliaia di messaggi ricevuti da un amico scomparso, Roman. Tra il 2015 e il 2017, la startup ha ricevuto circa 11 milioni di dollari di finanziamenti e cambiato direzione. È sempre un bot che dialoga, ma si nutre delle discussioni con gli utenti (vivi). Un confidente digitale, per il presente. Qui, però, più che vicini a Black Mirror, siamo dalle parti di Her.

Agi